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Non indignari, non admirari, sed intelligeri

Spinoza


Il blog si legge come un testo compiuto sulla Cina. Insomma un libro. Il libro dunque tratterà del "pericolo giallo". Un "giallo" in cui l'assassino non è il maggiordomo ma il liberale. Peggio il maggiordomo liberale. Più precisamente il maggiordomo liberale che è in voi. Uccidetelo!!!Alla fine il vero assassino (a fin di bene) sarete voi. Questo sarà l'unico giallo in cui l'assassino è il lettore. A meno che non abbiate un alibi...ça va sans dire.

martedì 19 giugno 2012

7.6: Le aziende di proprietà statale sono in declino?

5. La via del socialismo



La Cina ha comunismo e mercato, e orgoglio per entrambi. L’Italia non ha quasi più il comunismo, non ha ancora veramente il mercato e non ha né l’orgoglio di una cosa dalla quale sta cercando di uscire né l’entusiasmo per una cosa che sta cercando di creare.
Tommaso Padoa-Schioppa (2008).

La proprietà pubblica, come fondamento del sistema economico socialista, è una forza fondamentale dello stato per guidare e promuovere lo sviluppo economico e sociale e una garanzia importante per la realizzazione degli interessi fondamentali e la prosperità comune della maggioranza della popolazione ... L'economia proprietà stato ha conquistato un posto dominante nei principali settori che hanno una stretta attinenza con la salvaguardia economica del paese e i settori chiave, e ha appoggiato, guidato e portato con sé lo sviluppo di tutta l'economia sociale. L'influenza e la capacità il controllo delle aziende di stato andrà ulteriormente aumentata. L'economia di proprietà dello stato ha svolto un ruolo insostituibile nella modernizzazione socialista cinese.

Li Rongrong presidente della State-Owned Assets Supervision and Administration Commission of the State Council, 2003.

La ristrutturazione delle aziende di proprietà statale in Cina viene presentata in Occidente, come un’imponente iniziativa di privatizzazione e arretramento rispetto al socialismo. Sarebbe addirittura la “prova” del “fallimento” del socialismo non solo nell’URSS, “ma anche in Cina”. I critici, sia di sinistra che di destra, hanno sostenuto che l’obiettivo della riforma dell’economia era la privatizzazione delle imprese statali (SOE) mentre lo stato si sarebbe concentrato sulla gestione macroecnomica, sulla fornitura di servizi alle aziende, sulle infrastrutture. In realtà spesso si sostiene che ormai tutto si stia trasformando in capitalismo privato. Ma la realtà è diversa.

Kevin Lin dell'Università di Sidney sottolinea che quando si parla del miracolo cinese si finisce sempre col battere sul tasto della privatizzazione dell'economia che produce merci scadenti sotto la direzione delle multinazionali straniere. Si tralascia sempre il settore statale ignorando che "tale settore è venuto ad assumere un’importanza crescente, non solo per l’economia nazionale, ma anche per quella globale. Secondo l’equivalente cinese della lista delle cinquecento imprese di Fortune, un elenco compilato dalle organizzazioni rappresentative degli imprenditori cinesi – la Confederazione delle Aziende Cinesi (Zhongguo qiye lianhehui)e l’Associazione degli Imprenditori Cinesi (Zhongguo qiyejia lianhehui) – nel settembre del 2012 ben trecentodieci delle cinquecento aziende con maggior fatturato erano di proprietà dello Stato, un risultato che conferma un trend in corso già da diversi anni. E, di fronte a colossi del settore pubblico che, come le cinesi Sinopec e PetroChina, sono ormai tra le aziende più grandi al mondo, c’è poco da stupirsi se la rivista The Economist si è spinta al punto di descrivere paesi come Cina, Russia e Brasile alla stregua di ‘capitalisti di Stato’. Per molti aspetti, le autorità cinesi stanno semplicemente seguendo le impronte di altri paesi sviluppisti asiatici, ad esempio adottando politiche industriali finalizzate all’incoraggiamento di un settore statale strategico attraverso la creazione di conglomerati come le Keiretsu giapponesi o le Chaebol sud-coreane. Tuttavia – come è stato sottolineato dall’Economist – il caso cinese presenta almeno una peculiarità: l’inequivocabile proprietà statale di questi conglomerati industriali, sempre più simili a giganteschi animali mitologici. Ed è proprio questa ascesa del settore statale, seguita ad anni di drammatico declino, ciò che spesso sfugge agli osservatori esterni (Lin 2012). 

La struttura economica della Cina si basa sul socialismo di mercato che è un sistema di economia mista, diversificata dal punto di vista della proprietà in cui il settore pubblico, ovvero le aziende di stato e quelle collettive, ha una posizione dominante. Il settore statale dell’economia (formato in generale da aziende di grandissime dimensioni) controlla i principali segmenti e campi chiave, che danno l’impronta al tipo di sviluppo. La proprietà privata rappresenta circa un terzo dell’intera economia.


Il settore pubblico è limitato ai settori della sicurezza statale, dei monopoli naturali, settori e beni pubblici importanti, imprese strategiche in settori chiave e dell’alta tecnologia. Lo stato conserva dunque un ruolo strategico. Tra l’altro il maggiore beneficiario della riduzione relativa del peso dello stato non è tanto il settore privato quanto quello pubblico decentralizzato al quale si propone di “esplorare diverse forme di applicazione del sistema di proprietà pubblica”. Certamente è stato creato anche un settore privato o misto. Ci sono oltre un milione di imprese private e 30 milioni di imprese famigliari. La Cina vuole creare “un sistema di competenze basato sulla capacità di sopravvivenza dei più capaci” (Rapporto 2002). 

Il PCC nel 1999 delibera sulla riforma e sviluppo delle aziende di proprietà statale. Le opzioni strategiche sono quelle di rafforzare il settore statale. Quest'ultimo è alla base del rafforzamento dell'economia nazionale, della capacità difensiva e della coesione nazionale e “costituisce la base del sistema socialista cinese”. La Cina deve basarsi “sul ruolo decisivo delle aziende statali per sviluppare le forze produttive della società socialista ed attuare l'industrializzazione e la modernizzazione del Paese ”(Rapporto 2002).



Nel 1999 quando si decise che il governo doveva controllare solo i punti strategici si definì anche la strategia delle “privatizzazioni”. Nel settembre 1999, il 4° plenum del XV CC delimitò le quattro categorie di grandi aziende che dovevano essere controllate dal governo: Aziende legate alla sicurezza nazionale, specie le industrie di armamenti; Monopoli naturali (es. zecca, tabacchi); Aziende operanti nelle infrastrutture, acqua, elettricità, gas, ferrovie, ospedali, scuole, ecc. Industrie “essenziali”: metallurgiche, carbonifere, ad alta tecnologia o con nuove tecnologie. Nelle quattro categorie di cui si è accennato, la proprietà statale è spesso totale, in alcuni casi però lo stato ha solo per la maggioranza. I privati detengono per esempio il 20-30% dell’Azienda Petrolifera Cinese e delle Acciaierie di Baogang. In ogni caso il processo di privatizzazione è stato differente da quello avvenuto in Occidente poiché “in Cina molte aziende ("private") sono di proprietà collettiva o cooperativa”. Nella ristrutturazione delle aziende di medie dimensioni, si privilegia la proprietà collettiva di dirigenti e lavoratori insieme, con azioni non trasferibili. Secondo le stime di un alto dirigente cinese un terzo del PIL proviene dalle aziende statali, il 40% dalle aziende collettivizzate, ed il 30% circa da aziende di proprietà straniera o privata (Rapporto 2002).


Nel suo discorso al Congresso nazionale del popolo nel marzo 1998, Li Peng ha dichiarato che il compito della riforma delle aziende statali era di rimettere in carreggiata la maggior parte delle grandi e medie imprese statali - imprese di proprietà pubblica che operano in perdita, riorganizzando, riqualificando e migliorando la gestione in un periodo di tre anni. L'obiettivo è stabilire un moderno sistema di imprese nella maggior parte delle grandi e medie imprese statali chiave. Nelle industrie importanti e nei settori chiave, viene incoraggiata la creazione di gruppi di imprese di grandi dimensioni, al fine di aumentare la loro competitività nei mercati nazionali ed esteri. Le imprese che operano in perdita per un lungo periodo di tempo e per le quali non vi è alcuna speranza di porre fine a tale situazione, vengono chiuse assieme ad un certo numero di imprese i cui prodotti non sono commerciabili e che hanno difficoltà a sopravvivere. Ma Wenpu, il vice-ministro del Dipartimento Internazionale del PCC, sottolinea che le SOE costituiscono comunque la base principale dell'economia cinese ed esclude qualsiasi possibilità di indebolimento di questo settore (Public enterprises 1999).

Il settore statale dal 1997 è stato sottoposto a profondi cambiamenti nei principi di gestione e di governance. Nell'agosto del 1997 il XV Congresso del PCC ha deliberato profondi cambiamenti e riforme nella maggior parte delle grandi e medie imprese. Il problema principale era bassa efficienza economica, e il deficit di queste aziende. Grazie alle riforme molte di queste aziende hanno ridotto le perdite. I guadagni raggiunti gradualmente, hanno creato le condizioni per il rafforzamento di aziende sane all'interno del settore pubblico. A seguito della riforma di queste imprese nel 1997, hanno prodotto quasi 81 miliardi di yuan (10 miliardi di dollari) di profitti. Nel 1998, i profitti sono scesi a 52,2 miliardi di yuan, in presenza della crisi finanziaria in Asia. Da gennaio a novembre (11 mesi), 2000, hanno prodotto 208,3 miliardi di yuan di profitti, vale a dire 1,4 volte in più rispetto al 1999.  I profitti totali nel 2000 ammontavano a 230 miliardi di yuan. Alla fine del 2000, le società statali in 12 settori industriali hanno aumentato i profitti aziendali o si sono spostati dal deficit al guadagno. Così è stato per l'industria leggera, tessile, macchinari, petrolchimico, materiali da costruzione, tabacco, metalli non ferrosi, elettronica, estrazione dell'oro, farmaceutico, energetico e metallurgia. Sono state ridotte significativamente le perdite nelle miniere di carbone e nelle industrie della difesa. 

Il ministro della Riforma e dello Sviluppo nazionale Ma Kai ha sostenuto già nel luglio del 2005 che la transizione, dall’economia pianificata centralmente al socialismo di mercato, è stata, per l’essenziale, compiuta. Nel socialismo di mercato le aziende pubbliche svolgono un ruolo prominente coesistendo con aziende con vari tipi di proprietà. Alla fine del 2005 le circa 3.000 maggiori imprese statali o controllate dallo stato sono state trasformate in società per azioni. Il settore privato è però importante perché ha fornito i 4/5 dei nuovi posti di lavoro contribuendo per un terzo del PIL (Socialist market 2005).

I dirigenti cinesi sostengono dunque che le aziende pubbliche hanno un ruolo fondamentale nel socialismo di mercato. Vediamo se questo è vero oppure assistiamo al trionfo del capitalismo selvaggio e anarchico. Pan Shengzhou scrive che occorre sostenere la proprietà pubblica come aspetto principale dello sviluppo dell’economia di multi proprietà. Secondo i cinesi il sistema azionario può essere utilizzato tanto dal capitalismo quanto dal socialismo. La differenza dipende ovviamente da chi detiene la maggioranza delle azioni. "Svilupperemo l’economia di proprietà mista in modo che il sistema di partecipazione azionaria si trasformi nel principale elemento portante della proprietà pubblica. Sulla base dei differenziati oggetti di investimento, si stabilirà la struttura di gestione della società con il mutuo controllo e coordinamento reciproco dell’assemblea degli azionisti, del consiglio d’amministrazione e dell’amministrazione societaria in modo che sia istituito il sistema moderno di impresa, quindi si risolveranno i problemi che si incontrano nell’integrazione della proprietà pubblica con l’economia di mercato." (Pan Shengzhou 2006)
L'azienda statale China Aviation Industry Corporation (AVIC)   


Attualmente, il valore netto delle proprietà dei beni di stato è di 10.9 trilioni di RMB Yuan, il valore incrementale delle imprese di proprietà oppure società per azioni controllate dallo stato rappresenta oltre 1/3 del P.I.L. Nel 2004, nel valore incrementale delle industrie, le imprese di stato e S.p.A. controllate dallo stato hanno rappresentato 2.321.3 miliardi di RMB Yuan che costituiscono il 42.4% del valore incrementale industriale totale, le imprese collettive rappresentano il 5.3% mentre le imprese cooperative di partecipazione azionaria rappresentano 1.9%. Queste tre componenti superiori, cioè le imprese di proprietà pubblica, rappresentano il 49.6% del valore incrementale industriale.
 Scrive una ricercatrice italiana:
Il primo tassello socio produttivo della "linea rossa", nella Cina contemporanea, viene rappresentato dall’enorme spazio d’azione e dal peso specifico mantenuto tutt’oggi dalle grandi imprese statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica, che operano nel settore industriale e bancario, estrattivo e commerciale della grande nazione asiatica.
Il 3 settembre del 2007 il Quotidiano del Popolo di Pechino, l’organo di stampa più prestigioso del PCC, ha riportato che nel 2006 le 500 maggiori imprese della Cina (ivi comprese banche, settore petrolifero, degli armamenti, ecc.) controllavano e possedevano l’83,3 del PNL cinese, in netto aumento rispetto al 78% del 2005 ed al solo 55,3% del 2001: tra questi 500 grandi colossi, 349 e quasi il 70% del totale erano di proprietà statale, in modo completo o con una quota di maggioranza della sfera pubblica. Sempre nel 2006 il giro di affari e le vendite delle imprese statali (completamente o in maggioranza statali) risultò di 14,9 trilioni di Yuan, su un totale di 17,5 trilioni di Yuan di vendita globale collezionati dalle prime 500 imprese, pari a circa l’85% dell’insieme del giro d’affari della ricchezza prodotta da queste ultime. Nel 2008 il giro d’affari delle SOE (imprese statali cinesi, in tutto o a maggioranza) era ulteriormente aumentato fino a quasi raggiungere i 18 trilioni di Yuan, mentre il numero di impiegati in esse era pari a circa 35 milioni. Nel 2009 il giro d’affari della SOE superava a sua volta i 20 trilioni di yuan, con un ulteriore e netto incremento rispetto all’anno precedente. (Nichele 2012).
Lo stato ha adottato le politiche che incoraggiano lo sviluppo delle aziende private e individuali che come abbiamo ricordato contribuiscono per un terzo del P.I.L. Per la fine di 2004, l’occupazione del settore non pubblico nelle aree urbane aveva raggiunto 86,53 milioni persone ossia il 32.7% dell’occupazione totale delle aree urbane, di cui 10.33 milioni sono stati impiegati da imprese straniere e 25,21 milioni da imprese private. L’investimento del settore non pubblico ha rappresentato 49.3% del totale. Dunque l’economia privata svolge un ruolo importante nell’economia nazionale.

Coloro che sostengono che in Cina sarebbe stato restaurato il capitalismo sottolineano il declino delle aziende statali. Qui seguiremo il saggio del ricercatore giapponese Nakaya Nobuhiko soffermandoci sull’industria più che sull’intero PIL. Non c’è dubbio che ci sia un calo nell’incidenza delle aziende pubbliche sulla percentuale del Prodotto Industriale Lordo a vantaggio delle aziende private e straniere. Poiché il sistema delle statistiche è cambiato in 1997, è difficile effettuare i confronti esatti tra prima e dopo il 1997. Tuttavia, il livello produttivo delle imprese pubbliche nel Prodotto Industriale Lordo è passato dal 55.6% nel 1993 al 37.5% del 2003 (comprese le società per azioni controllate dallo stato). Sebbene la percentuale relativa delle imprese statali si sia nell’insieme contratta, in valori assoluti è invece aumentata da 2,21 mila miliardi di RMB nel 1993 a 6,6 mila miliardi di RMB nel 2004 e l’incremento reale al netto dell’aumento dei prezzi è del 7.2% (Nakaya 2006).

Prima del 1993 non era cambiato molto nel sistema di proprietà. Jeffrey Sachs e Wing Thye Woo, per esempio concludevano che ancora nel 1992: “La proporzione della forza lavoro impiegata dalle unità statali era il 18% nel 1978 ed era ancora il 18% nel 1992. Questo significa che ci sono 32 milioni in più di cinesi che lavorano nelle unità di proprietà statale nel 1992 che nel 1978” (Lessons 1996). Nel Vietnam addirittura la produzione delle aziende statali era aumentata dal 33% nel 1990 al 40% del 1994 faceva rilevare l'Economist che commentava “L’apertura dell’economia, lontano dall’indebolire il controllo statale, lo sta rafforzando” (Lessons 1996) .

La ristrutturazione delle aziende statali ha portato alla riduzione del numero delle imprese e degli occupati e al rapido aumento della produttività. Il tasso di profitto di queste aziende che era circa all’1,5-1,6% nel 1996/1998 dopo il 2000 è arrivato a 5,4-6,6% cioè allo stesso livello delle imprese non statali. Il Prodotto Industriale Lordo sottovaluta però il valore delle attività economiche delle imprese statali. Impiegando altri indici si può dimostrare che il dominio delle imprese statali è ancora considerevole. Il Prodotto Industriale Lordo misura la capacità di produzione in base ai prodotti finali, ma in questi dati sono quantificate anche le produzioni intermedie che sono a monte.

Quindi si tende a sottovalutare le lavorazioni che avvengono completamente all’interno delle aziende come è il caso, spesso, delle imprese statali. Se si tiene conto del solo valore aggiunto nel 2003 abbiamo un risultato del 44,8% che è di 7 punti superiore al valore lordo del Prodotto Industriale Lordo. Alla fine del 2003, le imprese statali rappresentano il 56% dei beni totali, 64% del capitale fisso e 53% dei capitali sociali. Quando prendiamo la “taglia” delle imprese il potere latente di controllo delle imprese statali diventa chiaro: il 60% del valore aggiunto delle imprese statali è dato da grandi imprese. Mentre per le imprese non statali è per l’84% nella piccola e media impresa. Le grandi imprese costituiscono un fattore di slancio per lo sviluppo economico futuro e il 75% sono statali mentre il 72% di quelle medie e piccole non è statale. La media del valore aggiunto è di 9 mila miliardi di RMB per le grandi imprese statali e di 5,2 mila miliardi di RMB per le grandi imprese non statali. 0,2 mila miliardi per le piccole e medie aziende statali e 0.1 per quelle non statali.

La differenza è evidente. Ciò indica che le imprese non statali che hanno il 57.6% del valore aggiunto di industria sono principalmente medio piccole e che non sono in grado di contrastare l’influenza di quelle pubbliche. Inoltre nel settore dell’industria pesante del trasporto come nell’automobile, aeromobile, navalmeccanico, ferroviario, nell’acciaio e materiali ferrosi le aziende statali forniscono il 64-66% della produzione.

Anche nei settori dove non c’è una posizione predominate dello stato come nella chimica, macchinario ordinario e speciale, prodotti farmaceutici le grandi imprese controllano il 70-90%. Le aziende non statali sono maggioritarie nei settori delle apparecchiature elettroniche della comunicazione, elettrodomestici, lavorazione dei metalli, alimentare e tessile.

E se lo sviluppo delle aziende di elettronica di consumo e tessili sembra notevole, questi settori hanno come principale obiettivo l’export e non l’economia nazionale. Le imprese statali contrariamente a quanto appare in superficie sono diventate efficienti e concorrenziali e il risultato della ristrutturazione delle imprese statali è che oggi sono alla base dell’Economia Socialista di Mercato. Dall’energia all’industria pesante, le aziende di stato monopolizzano i punti strategici dell’economia nazionale e mostrano un controllo potenziale sull’intera economia. In una classifica stilata da Forbes delle 500 imprese più grandi del mondo, 14 sono cinesi e tutte dello Stato. 

Le imprese statali sono diminuite da 238.000 nel 1998 a 150.000 nel 2003 mentre i loro profitti sono aumentati da 21,4 miliardi di yuan a 495,1 miliardi allo stesso tempo il loro attivo è passato da 5.200 miliardi di yuan a 8.400 miliardi e il loro tasso di profitto sul capitale investito al 5,9 % nel 2003 (Nakaya 2006). 

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Salickij e Fisjukov affermano che “con la ricostituzione delle aziende pubbliche, è riuscita a realizzare un disegno istituzionale di mantenere il controllo della proprietà pubblica. […]Wen Jiabao nella sua relazione davanti all’Assemblea Nazionale sostiene che nel 2006 i fondi patrimoniali delle aziende statali nel loro complesso siano aumentati del 61% rispetto al 2002, e i loro utili siano cresciuti di 3,2 volte nonché i loro versamenti fiscali di 2,1 volte” (Salickij and Fisjukov 2008).


In questo contesto è notevole come le imprese statali abbiano aumentato la loro profittabilità:
I profitti in Cina sono in chiaro boom. Ma solo i profitti delle imprese private sono soggetto di animato dibattito. L’analisi OCSE (2005) delle aziende industriali dal 1998 al 2003 è rappresentativa delle correnti vedute revisioniste. E’ interessante, che la crescita del TFP nelle aziende nazionali sia stato migliore di quelle estere, mentre le performance delle SOE sono pure migliorate.[…] Queste stime volano in faccia alla convenzionale saggezza, e implicano una stupefacente trasformazione dei bidoni delle SOE e altre mediocri aziende in imprese profittevoli, con la fine della distruzione di capitale (Chan-Lee 2007).
Hu Jintao ha sottolineato che l’estensione e la crescita di “grandi imprese multinazionali, pubbliche o a prevalente controllo pubblico, sempre più competitive sul mercato mondiale”. Infatti: “…nel 2006 l’84% del PIL cinese è stato prodotto dalle 500 maggiori imprese cinesi... tra queste, ben 349 – che hanno espresso l’85% della ricchezza prodotte tra tutte le 500 – sono imprese statali o controllate dallo Stato. Mentre solo 89 sono quelle private, che hanno espresso una ricchezza pari all’8,4% delle 500." (Sorini 2007)


I cinesi hanno dato vita ad un mercato azionario a due livelli: tutte le azioni delle imprese cinesi sono trattabili nelle borse locali, ma le azioni di proprietà statale sono privilegiate per conferire diritti speciali sulle immobilizzazioni delle società.
Hutton sostiene che di fatto due terzi delle imprese maggiori sono controllate dallo stato:
…il 47,7 per cento (delle imprese) era di proprietà statale o controllato da cooperative, solo il 13,3 per cento incontrovertibilmente privato e il 12 per cento di proprietà straniera. L’OCSE qualifica generosamente il restante 27 per cento come controllato da privati: ad esempio classificando le azioni di soggetti giuridici come non statali e dunque di fatto private, benché questo non sia corretto in via di diritto né di fatto; oppure concludendo, irrealisticamente, che la maggioranza azionaria straniera in molte joint venture corrisponda a un controllo da parte del settore privato. I due terzi del recente investimento estero diretto si concretizzano ora come imprese a completo controllo estero (wofe), in quanto gli investitori stranieri non sono disposti a una relazione contrattuale con un partner cinese di minoranza che mette solo una piccola frazione del capitale ma esercita, di fatto, il controllo... E quantomeno dubbio che più di un terzo di quel 27 per cento di imprese che l’OCSE ritiene a controllo privato potrebbe reggere questa definizione dopo un’analisi precisa. Più probabilmente i due terzi circa delle 180.000 imprese maggiori della Cina sono, a conti fatti, controllati dallo Stato. Questa conclusione è largamente in linea con i risultati dello studio della Banca Mondiale sulle società quotate…(Hutton 2007, p. 125).
Lo stesso argomento viene portato da Derrick Scissors in uno studio per la Heritage Foundation intitolato significativamente “Liberalization in Reverse" che scrive "Esaminare se le aziende siano veramente private è importante perché la privatizzazione è spesso confusa con la diffusione della partecipazione azionaria e la vendita di quote di minoranza. In Cina, la proprietà statale al 100 per cento è stato spesso diluita con la divisione della proprietà in azioni, alcuni dei quali sono messe a disposizione di elementi non statali, come le aziende straniere o altri investitori privati. Quasi due terzi delle imprese statali e filiali in Cina hanno intrapreso tali cambiamenti, portando alcuni osservatori stranieri rietichettare queste imprese come "non statali" o anche "private". Ma questa riclassificazione non è corretta. La vendita di azioni di per sé non altera il controllo dello Stato: decine di imprese non sono meno controllati dallo stato semplicemente perché sono quotate nelle borse estere. In pratica, tre quarti delle circa 1.500 società quotate come titoli nazionali sono ancora di proprietà statale." (Scissors 2009)
Commentando un libro di Richard McGregor, in un articolo pubblicato su «The New York Revew of Books» del 13 ottobre, Ian Johnson sostiene che le analisi della realtà della Cina, avrebbe portato ad uno "spettacolare fraintendimento" del ruolo del Partito Comunista Cinese secondo il quale il governo avrebbe privatizzato l’economia: "Ancora oggi quasi tutte le aziende cinesi di una certa importanza e dimensione restano nelle mani del governo […] Tutte hanno segretari di Partito che le amministrano assieme ai manager aziendali. Per le questioni importanti, come la scelta dei dirigenti e le acquisizioni all'estero, riunioni di Partito precedono le riunioni aziendali, che di solito approvano le decisioni del Partito […] Anche per quanto riguarda le aziende minori, che sono state “dismesse” dal Partito, il controllo del governo continua ad essere pervasivo anche se meno pressante […] Le aziende si sentono anche obbligate ad allinearsi alle politiche del governo, ad esempio ai piani per sviluppare le regioni povere della Cina." (Losurdo 2010)


E ancora continua.”secondo gli economisti Guy Liu e Pei Sun – gli autori dello studio riportato dalla Banca Mondiale — in oltre un decennio di mercato finanziario questa economia da duemila miliardi di dollari è riuscita a creare meno di duecento società realmente private (Hutton 2007, p.125)”. Duecento sembrano piuttosto poche per parlare di turbocapitalismo.


Ma anche il declino delle aziende statali viene variamente contestato. Kevin Lin University of Technology di Sydney in un saggio intitolato significativamente Declino e ascesa dell’industria di stato in Cina mette in rilievo come le aziende statali siano addirittura cresciute di importanza nel contesto dell'economia cinese:
Contrariamente alle aspettative generali (dei liberali e dei loro fratelli siamesi della sinistra radicale), ciò che inizialmente sembrava essere niente più che un caso tipico di privatizzazione neo-liberista, nel giro di pochi anni si è rivelato essere una deliberata riorganizzazione finalizzata a tutt’altro che lo smantellamento del settore statale. Nei primi anni Duemila, l’industria statale cinese ha iniziato a crescere rapidamente. La riforma delle imprese statali è proseguita per buona parte del decennio, ma era finalizzata non più a ridimensionare l’industria di Stato, bensì a consolidare le aziende rimanenti in settori strategici. Le statistiche nazionali mostrano una notevole crescita nella produttività e profittabilità del settore per i primi dieci anni del nuovo millennio. Ciò era dovuto in parte alla condizione monopolistico di alcune aziende statali, in parte alla quantità di investimenti in macchinari, all’intensificazione del lavoro e ai sussidi governativi. Nel complesso, tutto questo ha contribuito ad un revival dell’industria statale (Lin 2012).
La cosa ha anche delle ricadute sulle condizioni di lavoro: "A causa della crescente redditività del settore e della rinnovata enfasi sulla stabilità lavorativa, i dipendenti statali – quantomeno quelli regolari – sono oggi pagati molto meglio, hanno un lavoro più stabile e godono di maggiori tutele delle loro controparti nel settore privato. Questo aiuta a spiegare perché a partire dai primi anni Duemila le proteste operaie nelle imprese di Stato siano diminuite in maniera esponenziale, mentre i lavoratori nel settore privato sono sempre più attivi nell’organizzare scioperi per chiedere salari più elevati e condizioni di lavoro migliori" (Lin 2012). Tra l'altro è persino dubbio che sia stato un calo vertiginoso dell'occupazione perché si dovrebbe tener conto dei lavoratori cosidetti "somministrati" che sono parecchi.
Hutton riafferma che scopo del partito è il controllo dei settori strategici: "Il partito detiene una diretta sorveglianza sui gruppi strategici: meno un settore o un’impresa sono considerati strategici, più esso è disposto ad allentare la presa; ma la struttura azionaria e contabile è tale che in qualsiasi momento può essere pienamente ripristinato ove considerato necessario…nella tela del partito-Stato ogni società privata resta, nel migliore dei casi, una presenza malsopportata." (Hutton 2007 p.125)
Dove i mercati non comandano. Naturalmente in Cina dove la capiotalizzazione delle società per azioni è im gran parte gestita dallo stato.
Hutton parla poi a proposito delle partecipazioni azionarie:
Il «Parere» contempla quattro classi essenziali di quote azionarie: 1. azioni di Stato, possedute dallo Stato o da suoi enti; 2. azioni di "persone giuridiche" possedute da imprese, istituzioni o gruppi sociali autorizzati dallo Stato; 3. azioni possedute individualmente da investitori o dipendenti cinesi; 4. azioni di proprietà straniera, fino a un totale complessivo massimo di dieci miliardi di dollari (erano quattro miliardi fino al 2005). Le modalità di compravendita delle azioni, e a che patrimoni e profitti abbiano diritto le diverse tipologie di azionisti, sono questioni regolate nel dettaglio. Sino alla fine del 2006 il 63 per cento delle azioni detenute direttamente dallo Stato (azioni statali o di persone giuridiche attinenti lo Stato) non poteva nemmeno essere comprato o venduto in Borsa, mentre ora una nuova disposizione ne ha consentito il commercio dall'inizio del 2007, ma solo laddove l'acquirente sia ancora lo Stato o una connessa persona giuridica. Soltanto le azioni individuali di classe A possono essere liberamente commerciate da investitori pubblici cinesi all'interno del paese; solo queste sono cumulabili dagli investitori sino al limite del conseguimento di partecipazioni strategiche, e comunque solo sulla base dell'impegno a conservarle per almeno tre anni (Hutton 2007, p.122).
Investimenti in capitale fisso per tipo di proprietà


Come si vede lo stato ha un controllo sostanziale sulle azioni delle aziende.

Ancora nel 2000 i settori collettivi e statali dell’economia costituivano il 75% dell’economia nazionale mentre quella privata era cresciuta dall’1% (1978) al 25% incluse le joint venture tra le aziende statali e compagnie straniere (China big 2003). 

Nella Cina lo Stato controlla più o meno direttamente i mezzi di produzione e la borghesia non ha il controllo politico dello stato. Il potere politico rimane saldamente nelle mani del Partito. Scrive Antonio Gabriele:
Nel socialismo di mercato, o almeno nella forma in cui sta funzionando in Cina e in Vietnam, lo stato determina il tasso d’investimento in misura qualitativamente più forte che nel capitalismo, grazie alla maggiore ricchezza ed efficacia di strumenti per il controllo diretto e indiretto del surplus e della sua utilizzazione, ed all’assenza di una classe borghese nazionale propriamente strutturata e politicamente egemone. Il controllo strategico diretto e indiretto sui mezzi di produzione e sui centri di generazione e riproduzione del sapere tecnico consentono in linea di principio una forma avanzata di pianificazione –anche qualitativa – delle principali direttrici tecnologiche dello sviluppo […]. Lo straordinario dinamismo dell’economia cinese (e, in misura un poco minore, di quella vietnamita) è dovuto in buona misura a queste caratteristiche fondanti del socialismo di mercato. In altre parole, questo sistema consente in teoria (e, almeno da trent’anni a questa parte, in pratica) di conseguire più efficacemente del modello capitalistico standard un obbiettivo intermedio fondamentale, soprattutto per i paesi arretrati: lo sviluppo delle forze produttive – misurato ex-post sinteticamente, in modo notoriamente inadeguato, dalla crescita del PIL. Questo è il significato normativamente neutro che attribuisco al termine “socialistico” (Gabriele 2005)
Dunque la Cina avrebbe le caratteristiche di base per essere un paese “socialistico”. Vedremo più avanti in quale misura questo discorso è fondato.

La rivista Fortune ha pubblicato la « Global 500 », ovvero la hit parade delle 500 più importanti imprese del mondo. Dieci anni prima c'erano solo sei imprese cinesi. Nel 2009 erano 37. Si tratta quasi esclusivamente di imprese in cui lo stato è il solo azionista oppure quello maggioritario. i tratta sempre di imprese strategiche. Le uniche tre imprese private menzionate, la 12, 17 e 29 hanno sede ad Hong Kong : 1 Sinopec – petrolio. 2 China National Petroleum – petrolio. 3 State Grid – energia. 4 ICBC – banca. 5 China Mobile Communications – telecomunicazioni. 6 China Construction Bank – banca. 7 China Life Insurance – assicurazioni. 8 Bank of China – banca. 9 Agricultural Bank of China – banca. 10 Sinochem – petrolio. 11 China Southern Power Grid – energia. 12 Noble Group – agricoltura e energia. 13 Baosteel Group – acciaio. 14 China Railway Group – ferrovie. 15 China Railway Construction – ferrovie. 16 China Telecommunications – telecomunicazioni. 17 Hutchison Whampoa – navigazione marittima. 18 China State Construction Engineering – costruzioni. 19 China National Offshore Oil – petrolio. 20 China Ocean Shipping – navigazione marittima. 21 China Minmetals – metallurgia. 22 COFCO – commercio. 23 China Communications Construction – costruzioni. 24 Shanghai Automotive – automobili. 25 Sinosteel – acciaio. 26 Hebei Iron & Steel Group – acciaio. 27 China Metallurgical Group - metallurgia. 28 China FAW Group – automobile. 29 Jardine Matheson – finanza e beni immobili. 30 Citic Group – investimenti. 31 China United Telecommunications – telecomunicazioni. 32 China Huaneng Group – energia. 33 Aviation Industry Corp. of China – navigazione aerea. 34 China South Industries Group – automobili. 35 Jiangsu Shagang Group – acciaio. 36 Bank of Communications – banca. 37 Aluminum Corp. of China – metalli non ferrosi (Entreprises chinoises 2009).


L'ottimo blog Chinese Century sottolinea come l'amministratore delegato della CNOOC, una delle più grandi compagnie petrolifere off-shore del mondo, guadagni solo 1 milione e contomila RMB all'anno, circa 160.000 euro. Il suo stipendio è stato ulteriormente tagliato del 10% per arrivare con la nuova legge sullo stipendio al massimo un milione di  RMB all'anno. Le SOE concedono 24 mesi di congedo di maternità. Nessuna azienda occidentale ha gli eccellenti trattamenti delle SOE cinesi. Eppure, nel complesso le SOE sono ancora redditizie. I loro guadagni per il capitale investito sono bassi, quindi dal punto di vista puramente capitalista di un investitore non sono interessanti, ma quando si pensa come i ricavi netti siano distribuiti ai dipendenti attraverso salari e alti benefici, allora non sorprende che poco dei ricavi vada a compensare  il capitale investito. Anche se non sarà possibile trovare investitori di capitali privati ​​disposti a mettere il loro capitale per finanziare gli stipendi alti, ha senso per un paese socialista fare esattamente questo. In tal modo si dà alla società nel suo complesso una base stabile di milioni di famiglie con un reddito sicuro, e prospettive positive a lungo termine, che possono utilizzare per i loro consumi - fornendo così posti di lavoro per le piccole e medie imprese di servizi - o per il risparmio - denaro che viene utilizzato per investimenti di capitale da parte delle banche di proprietà statale che pagano un interesse molto basso. La SOE non solo finanziano la popolazione con stipendi alti ma devono anche consegnare parti del loro utile (al netto delle imposte!) al governo. Questo ovviamente è possibile perché le SOE agiscono in regime di semi-monopolio. Nel caso di telecomunicazioni però la forte concorrenza tra le quattro imprese statali ha portato a servizi buoni e prezzi ragionevoli. Le SOE dovrebbe essere osservate da più prospettive e non solo dai profitti economici a breve termine. La stabilità che generano per tutta la popolazione durante i periodi di transizione non è da sottovalutare. L'approccio alternativo di smantellare tutte le aziende di Stato è fallito miseramente con la fine dell'Unione Sovietica, cportando il PIL della Russia in caduta libera. La Russia ha raggiunto solo nel 2001 il livello del PIL sovietico pre-collasso  grazie principalmente al petrolio.

Rilevava nel luglio del 2008 il prestigioso Pew Global Project: "Mentre aspetta le Olimpiadi di Pechino, il popolo cinese esprime straordinari livelli di soddisfazione per il modo in cui stanno andando le cose nel proprio paese e per l'economia della propria nazione. Sono in più di otto su dieci di avere una visione positiva di entrambe, la Cina è il numero uno tra i 24 Paesi su entrambe le questioni nel sondaggio 2008 del Pew Research Center Pew Global Attitudes Project" (Pew 2008). I cinesi sono dunque pienamente soddisfatti della loro economia socialista di mercato. Altrettanto non si può dire per i paesi capitalisti, soprattutto in presenza dell'attuale crisi.

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