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Non indignari, non admirari, sed intelligeri

Spinoza


Il blog si legge come un testo compiuto sulla Cina. Insomma un libro. Il libro dunque tratterà del "pericolo giallo". Un "giallo" in cui l'assassino non è il maggiordomo ma il liberale. Peggio il maggiordomo liberale. Più precisamente il maggiordomo liberale che è in voi. Uccidetelo!!!Alla fine il vero assassino (a fin di bene) sarete voi. Questo sarà l'unico giallo in cui l'assassino è il lettore. A meno che non abbiate un alibi...ça va sans dire.

mercoledì 16 maggio 2012

7.5: La Cina è un paese liberista?

3. Socialismo vs. turbo-capitalismo

Come parla?! Come parla?! Le parole sono importanti! Come parla?.
Nanni Moretti (Palombella Rossa)

E’ straordinario che India, Cina e Vietnam abbiano offerto tre dei cinque maggiori esempi di storie di successo tra i globalizzati. Il relativo successo dell’India è iniziato negli anni ’80, in parte a causa del controllo stretto del capitale è l’assistenza a lungo termine da parte dei funzionari che ha aiutato a proteggersi dalla crisi del debito a in cui è andata incontro l’America Latina e altre parti del mondo. La Cina è cresciuta per prima sulla scia della riforma agraria e poi attraverso un programma di industrializzazione finanziato principalmente dal risparmio interno, non liberalizzando ancora oggi il suo capitale. Vietnam e Cina rimangono sotto il controllo dei partiti comunisti. Questo non sono paesi del "Washington consensus" sotto nessun aspetto.
James Galbraith 2002.

Il trend dominante nel pensiero economico occidentale è stato quello secondo cui solo una presenza residuale dello stato avrebbe portato allo sviluppo. Questo modo di pensare è stato per lungo tempo una sorta di pensiero unico, una tipo di fondamentalismo religioso con tanto di dogmi al seguito mentre il socialismo diventava una bestemmia. Le shock therapy applicate nelle economie dell’est Europa e soprattutto dell’ex URSS si sono basate su questo dogma. L’economia socialista è irrimediabilmente non riformabile e solo una presenza minima dello stato con una massiccia privatizzazione avrebbe risolto ogni problema[4]. Questa idea è stata alla base anche dello smantellamento delle aziende statali che a volte erano dei veri e propri gioielli in Italia e nell’Europa Occidentale.
Il liberismo si fonda dunque sulla riduzione al minimo dell’intervento dello stato nell’economia. Quindi se le parole hanno un senso, e le parole sono importanti come ricorda Nanni Moretti, la Cina non è liberista. Dire che la Cina è liberista significa giocare con le parole o peggio non capire che cosa sia il liberismo. Per un paese che ha ancora piani quinquennali, sebbene molto diversi da quelli di epoca sovietica, e aziende statali che dominano i gangli vitali dell’economia parlare di liberismo non ha alcun senso.

In Cina le aziende pubbliche sono molto importanti, sebbene il dato essenziale sia che le aziende socialiste hanno una importanza strategica. Molte delle aziende in Cina sono a maggioranza statali o anche semplicemente partecipate. I settori strategici dell’high tech, l’industria pesante e quella degli armamenti sono nelle mani dello stato. Invece le aziende private, anche straniere, dominano i settori ad alta intensità di manodopera e l’industria leggera e di consumo. La tecnologia che ha permesso di mettere un uomo nello spazio oppure di costruire missili antimissile proviene da aziende statali[5]. Il settore della distribuzione per lo stato ha poca importanza, e ad esempio, contano più quello dell’energia, l’aereo-spaziale, le telecomunicazioni ecc. Il fatto che l’industria statale domini nei settori strategici non è affatto ininfluente nel determinare lo status socialista di un paese. Ricordiamo che i lavoratori delle aziende statali sono del tutto garantiti per quanto riguarda sanità, infortuni, disoccupazione e pensione. Inoltre il management è sottoposto all’assenso dei lavoratori che sono stati invitati anche recentemente alla partecipazione attiva alla vita delle aziende.

Secondo Jean-François Huchet, del Centro francese di Studi sulla Cina Contemporanea di Hong Kong: 
La visione di tante organizzazioni internazionali secondo cui la Cina sarebbe un’economia privata è profondamente sbagliata. Nella lista delle duecento aziende più importanti del Paese quelle private sono poco più di un paio. Anche se numericamente le aziende private sono molte di più di quelle statali, non va dimenticato che in termini di investimenti e di capitale azionario sono le seconde a fare da padrone (…) Pechino è stata in grado di smentire la teoria secondo cui le aziende socialiste siano destinate ad uscire di scena per l’impossibilità di essere modernizzate. La Cina, infatti, è stata in grado sia di liberarle dal fardello di tutte quelle attività di matrice sociale cui erano obbligate a provvedere (ospedali, mense, ecc.), sia di renderle più produttive grazie a una politica di fusioni e acquisizioni delle unità più piccole e meno competitive (Astarita 2008) 
La preponderanza del settore pubblico nella produzione della ricchezza, consente l’investimento degli utili in spese pubbliche. La crescita della Cina come produttore di beni di consumo ha enormemente dilatato la domanda di infrastrutture e nell’industria pesante. Queste a loro volta hanno favorito gli investimenti stranieri. Il Wall Street Journal negli anni ’90 riportava: “Le discussioni sulle infrastrutture sono normalmente noiose, finché si arriva in Cina…La shopping list delle infrastrutture per il prossimo decennio è impressionante; 40 aeroporti, 114 sistemi di linee metropolitane leggere, centrali elettriche, strade e ponti (Lessons 1996).“. Le spese pubbliche si accrescono di anno in anno specialmente negli investimenti in infrastrutture, mentre il mondo occidentale gravato da debiti deve proseguire una politica di austerità fiscale. Le spese in infrastrutture sono state a favore tanto dei canali di irrigazione quanto del sistema ferroviario cinese. Queste spese superano di gran lunga l’ammontare degli investimenti stranieri. Oltre alle infrastrutture le spese vengono incanalate nella ricerca, nella scuola, nell’università e nella formazione.

Tutto questo viene fatto con grande pragmatismo e sperimentandolo su una porzione limitata del territorio. Questa confusione con la shock therapy è tipica dei semplificatori: tutto è shock therapy, tutto è capitalismo, tutto è imperialismo. Il mercato è il male assoluto. Dunque la liberalizzazione è avvenuta gradualmente e non secondo le terapie shock made in Washington: “Su un piano più generale, i processi di privatizzazione e di deregulation sono stati qui assai più selettivi e hanno proceduto a una velocità molto più contenuta che in altri paesi che avevano invece aderito alle prescrizioni neoliberiste "(Arrighi 2008, 393-394). Ciò che viene confuso con le ricette neo-liberali è in realtà la prerogativa di base del socialismo di mercato cinese che lo rende superiore al sistema capitalista come è idealizzato dai liberisti e anche a quello riformato dei keynesiani. Le aziende statali stanno sul mercato e ci stanno in concorrenza con quelle private nazionali, con quelle statali a partecipazione azionaria privata, con le aziende collettive e con le corporation straniere.
"L'effetto della concorrenza ha prodotto una brusca riduzione della frazione dell'occupazione e della produzione totali attribuibili all'industria di stato rispetto al periodo 1949-1979. Ma come vedremo ciò non ha significato una rinuncia del governo alla sua azione di promozione dello sviluppo, che si e invece rinvigorita con poderose iniezioni di risorse per il decollo di nuovi settori industriali, con la creazione dei nuovi distretti dedicati all'esportazione (Export Processing Zones, epz), con l'allargamento e modernizzazione dell'istruzione superiore e con il lancio della costruzione di grandi infrastrutture, il tutto su una scala che non ha precedenti fra i paesi con reddito pro capite paragonabile" (Arrighi 2008, 393-394).

Arrighi che ha istituito un parallelo tra Adam Smith e i dirigenti cinesi mette in rilievo il legame tra il gradualismo cinese e l’estraneità alle terapie liberiste:


In poche parole, il relativo gradualismo con cui sono state portate avanti le riforme e l'azione antagonistica con cui il governo ha cercato di promuovere la sinergia fra un mercato interno in grande espansione e una nuova divisione sociale del lavoro, mostrano che le utopiche convinzioni del credo neoliberale sugli effetti benefici delle terapie d'urto, sulla riduzione al minimo dell'intervento pubblico e sulle capacità di autoregolazione dei mercati sono altrettanto estranee ai riformatori cinesi quanto lo erano a Smith. Nella concezione smithiana dello sviluppo su basi di mercato, …lo stato deve fare del mercato uno strumento di governo e, se liberalizza il commercio, deve farlo così gradualmente da non turbare la "pubblica tranquillità". Lo stato deve riuscire a mettere in competizione fra loro i capitalisti, piuttosto che i lavoratori, così che i profitti si riducano al valore minimo tollerabile, deve incoraggiare la divisione del lavoro fra le unità produttive e fra le comunità piuttosto che all'interno di ciascuna di esse e investire nell'istruzione per contrastare gli effetti negativi della divisione del lavoro sul livello intellettuale della popolazione. Il governo deve vedere come prioritaria la formazione di un mercato interno e lo sviluppo dell'agricoltura, gettando così le basi dell'industrializzazione e, con il passare del tempo, anche del commercio estero e degli investimenti stranieri. Se però queste priorità dovessero scontrarsi con quello che è "il primo dovere del sovrano", cioè "proteggere la società dalla violenza e dall'invasione da parte di altre società indipendenti", Smith ammette che si possa dare priorità all'industria e al commercio estero (Arrighi 2008, 88-89).
Come sostiene Arrighi il mercato è uno strumento di governo e non è fine a se stesso. Del resto questa è appunto la posizione in ultima analisi di Deng Xiaoping.

La riforma graduale per il passaggio al mercato, che se le parole hanno un valore è l'opposto della terapia shock, procede dal 1984 al’1988 con l’introduzione di un sistema duale dei prezzi. Infatti oggi i prezzi sono praticamente tutti liberalizzati, tranne alcuni beni come l'energia, ad un livello analogo a quello dei paesi più avanzati. Se nella vecchia economia pianificata i prezzi venivano dettati centralmente si è passati ad un sistema in cui i prezzi vengono determinati sia dal mercato che da decisioni amministrative per procedere progressivamente verso prezzi liberi. Nel 1988 solo il 30% dei prezzi al dettaglio erano ancora stabiliti dal centro: “La graduale liberalizzazione dei prezzi condotta in Cina è proceduta su un doppio binario: quello dei prezzi previsti dalla pianificazione e quello dei prezzi progressivamente stabiliti dal mercato. Lodi a non finire per questo esempio lampante e felice di pragmatismo (Hutton 2007, 88-89). All'inizio della riforma incentrata nelle campagna comportò un aumento della produzione di cibo ma il governo ha saputo incentivare anche la crescita dei beni durevoli come televisori, lavatrici, frigoriferi. Il governo cinese, a differenza di quello russo di Eltsin, è riuscito a compensare il graduale aumento dei prezzi nel passaggio all'economia di mercato con l'aumento dei redditi portando l'economia cinese ad un circolo virtuoso che ha stimolato la spettacolare crescita economica, invece di quello vizioso russo dove la gente aveva visto diminuire la capacità d'acquisto. Le riforme hanno avuto successo perché la popolazione si è vista protetta dall'aumento dei prezzi e al tempo stesso ha avuto a disposizione una parte maggiore dei beni di consumo e ciò ha determinato un ampio sostegno popolare (Lessons 1996).

Paesi per grado di libertà economica. La Cina è agli ultimi posti. La Russia ha ampiamente privatizzato prima per poi dovere ricomprare dagli oligarchi ciò che Eltsin aveva regaalto loro.
Questo sistema introdotto gradualmente ha permesso di limitare al minimo il numero di coloro che ci rimettevano: "Come scrive Qian Yingyi della Stanford University, il PCC ha imboccato la strada della riforma per gradi in modo da limitare al massimo il numero di chi ci avrebbe rimesso e prevenire un'ampia crisi economica e politica. Nessuno è giunto al fallimento: non le aziende poco efficienti, che hanno potuto continuare a ottenere forniture ai prezzi pianificati; non le aziende più dinamiche, cui si è aperto un mondo di occasioni per espandere la produzione e approfittare delle nuove possibilità di vendita sul libero mercato" (Hutton 2007, 97). Questo gradualismo ha dunque scongiurato gli effetti delle terapie shock che si sono dovuti sorbire i paesi dell’est Europa per cui i danni sociali sono stati molto limitati se non nulli. E tutti hanno potuto beneficiare degli elementi positivi delle riforme.  Scrive Hutton:
La “liberalizzazione” non ha per questo significato necessariamente “privatizzazione”. Tutt'altro. Nel 1997 la decisione sulle imprese di Stato: «Tenere saldamente il grande ma mollare il piccolo». Ne è seguito un turbine di fusioni e di esuberi fra le SOE. Nonostante i commentatori occidentali abbiano a volte classificato questo fenomeno come un via libera alla privatizzazione, le cose sono state ben diverse, e il PCC si è sempre guardato dall'usare espressioni simili. Anche quando si è trattato di mollare le cime, il management è sempre rimasto legato a filo doppio al partito, che continua a nominare i dirigenti di alto livello, mentre la liquidità per l'investimento è generata internamente alle aziende o prestata da banche statali". (Hutton 2007, 97).

Secondo l’Index of Economic Freedom la Cina è al 127° posto su 157 paesi per libertà economica abbondantemente dietro l’India solo per fare un esempio (Index 2008), dietro molti altri paesi che hanno investito in liberismo ma dove lo sviluppo non è arrivato.
Senza contare poi che le aziende private in Cina sono spesso molto piccole secondo lo standard italiano e microscopiche secondo quello cinese.
Nonostante siano il settore dinamico del mondo produttivo cinese, le ditte realmente private fondate da imprenditori, come indica il ricercatore Yasheng Huang del MIT, nel corso degli anni Novanta hanno raramente raggiunto una taglia superiore ai sessanta-settanta dipendenti, e quelle che sono riuscite a farlo lo hanno dovuto all’accesso a strumenti legali e finanziari provenienti da Hong Kong. Esiste ancora un pregiudizio contro il prestito alle imprese private, nonostante le facilitazioni formalmente introdotte nel 1998 [7].
Interessante è, in particolare per il settore agricolo, il monopolio delle esportazioni e importazioni: "Il monopolio dello stato, la limitazione delle importazioni ed il disincentivo nelle esportazioni sono le caratteristiche principali della pianificazione economica cinese. Lo stato ha il monopolio ed il pieno controllo di esportazioni e importazioni attraverso il Ministero per il commercio estero. I singoli agenti economici non possono gestire e/o intrattenere autonomamente relazioni di scambio con partner stranieri. Per questo motivo esistono 12 Foreign trading Companies (FTC), le quali, distinte per ambiti settoriali, hanno il compito di importare ed esportare le quantità stabilite all’interno del piano economico."(Nichele e Colli 2010). Insomma questo sarebbe il "liberismo allo stato puro" secondo i semplificatori della ormai giustamente defunta sinistra radicale.

Come viene detto in questo saggio sulla rivista Marxist parlare di:
… modello neoliberale è un travestimento della verità. Il successo cinese durante gli anni della riforma è dovuto precisamente dal fatto che è stato gestito per combinare in un modo completamente nuovo le virtù della centralizzazione assieme con quelle della decentralizzazione. O, mettendola in modo diverso, i vantaggi di un’economia di comando accanto alla flessibilità impartita dal funzionamento del mercato. Ossia c’è una economia di comando che ha messo assieme due processi paralleli minimizzando i contrasti. In periodi di inflazione galoppante, per esempio, il controllo dei prezzi vi ha posto freno con facilità piuttosto che far ricorso a una drastica deflazione con alti costi sociali (come sarebbe successo sotto il capitalismo), dato che una larga parte della economia continua ad essere statale e quindi sensibile all’intervento del partito. La gestione degli scambi esteri, una fonte potenziale di seri problemi in ogni economia capitalista del terzo mondo, è stata maneggiata con grande facilità perché il vecchio sistema delle direttive di partito alle imprese continua ad essere effettivo. In breve, la Cina ha il vantaggio di essere capace di integrare gli usuali strumenti di intervento statale disponibili nei paesi capitalisti in una economia capitalista di mercato con altri strumenti che ha conservato dai periodi pre-riforma. In questo senso descrivere un marcato contrasto tra i periodi pre e post riforma è completamente fuorviante (Patnaik 1999) 
Sostanzialmemte sulla stessa lunghezza d'onda anche Wang Hui che non riconosce nelle riforme delle campagne (quelle che fecero gridare alla restaurazione del capitalismo la sinistra radicale occidentale) qualcosa di neoliberale bensì un frutto in qualche modo delle stesse comuni popolari:
Nel discutere del carattere dello stato nella Cina moderna, non si può tralasciare la trasformazione dei rapporti fondiari e dello status dei contadini che la rivoluzione cinese ha comportato. Per esempio, molti criticano l’esperienza delle comuni popolari, ma pochi discutono su come questo esperimento sia stato il frutto del continuo mutamento dei rapporti fondiari nella Cina moderna: da una parte è finita la piccola economia contadina basata sulla famiglia o sul clan; d’altra parte i rapporti familiari, di clan e su base locale sono stati riorganizzati con altre modalità nei nuovi rapporti sociali. La politica di riforme [dalla fine degli anni Settanta] nelle campagne è stata una riforma del sistema delle comuni popolari, ma al tempo stesso si è basata sulle trasformazioni dei rapporti sociali portati dall’esperimento delle comuni. Inizialmente la politica di riforme nelle campagne promossa dallo Stato era centrata su una gestione diversificata e sul riaggiustamento dei prezzi dei prodotti agricoli. Questo movimento di riforma in realtà ha assimilato molti elementi importanti della situazione precedente, come nel caso dello sviluppo delle industrie di distretto in imprese di distretto; il che non è assimilabile ad una logica neoliberista. (Wang Hui 2010).
Nella stessa agricoltura interamente privatizzata (ma la terra rimane dello stato) in realtà sopravvivono tutta una serie di attività collettive che sono importanti per l’aratura, l’irrigazione, la protezione del raccolto, fornitura di sementi, fertilizzanti, insetticidi e forniture di combustibile (Lessons 1996).
(…)l’alta crescita dell’agricoltura testimoniata nei primi anni della riforma, che ha fornito i fondamenti per tale esperimento, fu resa possibile perché il regime di proprietà collettiva e gestione della irrigazione non fu abbandonato. Qui ancora la Cina ha raccolto i vantaggi del vecchio sistema collettivo in termini di lavori di irrigazione lasciati in eredità, e continuava a raccogliere i benefici della proprietà collettiva di quei lavori, anche mentre si scioglievano le comuni e si privatizzavano le operazioni agricole.
Il nuovo regime in altre parole è stato eretto sulle spalle del vecchio, ma non smantellando o distruggendolo completamente. C’era, e ancora c’è, una peculiare simbiosi tra le nuove e le vecchie caratteristiche della economia cinese, per cui chiamare la Cina “modello neo-liberale” è una forzatura della realtà. L’attuale regime economico della Cina è ancora un’altra fase nella fioritura del corso della rivoluzione cinese (Patnaik 1999).
La generale alfabetizzazione, e il miglioramento della scolarizzazione e della salute della forza lavoro, sono alcune delle eredità del periodo preriforma che sono diventate importanti fattori del dinamismo della Cina (Patnaik 1999). Hutton ha notato come nell’ultimo periodo i dirigenti di “…China Telecom, Netcom mobile, e Unicom sono stati arbitrariamente sostituiti perché il partito era preoccupato che le società stessero diventando troppo competitive e voleva incoraggiare una cultura più collaborativa (Hutton 2007, 127).
Lo stesso Huchet commenta:
Essere più produttivi non implica essere più indipendenti dal Partito. Al contrario, attraverso il SASAC (State Assets Supervision and Administration Commission), Pechino gestisce direttamente le 150 aziende più grandi del Paese. Il SASAC ha infatti il potere di nominare i direttori delle aziende, di promuoverne i dipendenti e di deciderne le strategie. Inoltre, il fatto che i quadri siano funzionari pubblici cui in ogni momento potrebbe essere affidata una carica politica dal Governo centrale evidenzia un legame molto stretto tra Partito e azienda  (Astarita 2008)” [8]: .
In Cina c’è stata la più grande espansione di piccolo commercio e delle aziende artigianali nella storia nel breve periodo. Ma questo non significa che lo stato abbia privatizzato in modo selvaggio. C'è stata invece la tendenza a salvare le aziende di stato ristrutturandole e sopratutto nessuna privatizzazione della grande industria, come invece è avvenuto nell'Europa orientale, salvando così l’elemento socialista dell’economia. La riforma si è invece basata sullo sviluppo delle imprese collettive e joint venture (con i partner stranieri), e delle imprese private, anche se queste ultime sono in generale molto piccole e giocano un ruolo modesto nel controllo dell'economia (Lessons 1996)

L’economista sino-americano Yasheng Huang in Selling China sostiene esattamente il contrario di chi accusa la Cina di essere capitalista. E’ un completo pianto greco sulla distorsione nell’allocazione delle risorse finanziarie che avrebbe creato un sistema sfavorevole alle imprese private attraverso la frammentazione dell’economia per le restrizioni alla mobilità di beni e capitali tra le diverse regioni. La sostanza è sempre la stessa, le imprese statali sono inefficienti e assorbono tutte le risorse finanziarie e sono la causa delle difficoltà finanziarie e delle scarse performance delle aziende private che impediscono a queste di espandersi a causa delle discriminazioni che subiscono. In questa ottica gli investimenti stranieri sono considerati una distorsione economica perché vengono privilegiati rispetto alle aziende nazionali (Poncet 2006). In realtà i vantaggi per le imprese straniere rispetto a quelle nazionali sono sensibilmente diminuiti grazie alla tassazione unica.
Sandra Poncet sinterizza in questo modo la posizione di Yasheng Huang:
"Egli considera che l’ideologia interamente tesa verso la preservazione del socialismo è la sola spiegazione del rifiuto della privatizzazione e della distorsione nell’allocazione della risorse. Rifiuta invece le ipotesi alternative della preservazione della stabilità sociale e della massimizzazione degli introiti fiscali per non accettare che la tensione ideologica delle autorità. "(Poncet 2006)[9]

Prendiamo il ruolo della famosa burocrazia. La bestia nera dei liberisti (e dei trotzkisti). La burocrazia si opporrebbe alle riforme e sarebbe tendenzialmente conservatrice secondo l’opinione generale. Jane Duckett dimostra, ad esempio, come l’amministrazione della città di Tianjin abbia facilitato lo sviluppo economico e le riforme. In questa città la burocrazia superflua invece di essere licenziata è stata immessa in agenzie sussidiarie che si occupano dello sviluppo economico. Attraverso i profitti derivati dalle loro attività hanno aumentato le risorse dell’amministrazione e migliorato i servizi alla comunità. Addirittura i vari uffici sono in concorrenza tra di loro nel creare società che agiscono nel medesimo mercato. La Duckett parla di “stato imprenditore” e questi tipi di intervento si sono diffusi. Marc Blecher o Jean Oi sostengono che l’amministrazione nel suo complesso ha promosso e favorito lo sviluppo attraverso la costruzione di società indipendenti nelle varie città del paese. Tanto che questi autori parlano di stato-azienda o stato-sviluppista. Siamo di fronte dunque ad una “burocrazia imprenditrice” l’opposto di quanto sostiene il neoliberalismo, per cui la “burocrazia statalista” e l’antitesi dell’efficienza imprenditoriale (Huchet 1999)

Del resto tutte le società industriali avanzate sono passate attraverso ruolo importante dello stato. E’ assolutamente insensato predicare il liberismo per i paesi in via di sviluppo ancorché non socialisti. Questa tesi venne sostenuta con particolare vigore da due economisti cinesi che si erano formati in America Hu Angang e Wang Shaoguang, con una lunga esperienza di studio e di insegnamento alla Yale University: "Nel loro A Report on China’s State capacity teorizzarono la necessità per i paesi in via di sviluppo di adottare una forte concentrazione del potere in mano allo stato in modo di potere esercitare un ferreo controllo soprattutto sul piano finanziario ed economico. Certamente gli autori avevano davanti agli occhi la crisi di liquidità del centro cinese alla fine degli anni ’80 e il provincializzarsi delle scelte strategiche più importanti per lo sviluppo cinese. …Hu e Wang che a Yale avevano avuto modo di studiare le vie della nascita del capitalismo ed il ruolo che in esse aveva avuto lo stato" (Cammelli 2008).
La Cina ha poi una antica tradizione di intervento pubblico. Le canalizzazioni che collegano il sistema dei grandi fiumi e garantiscono la distribuzione razionale dell’acqua a tutta la grande pianura centro-meridionale per millenni, ha dovuto organizzare le risorse interne per far fronte ai bisogni di una popolazione che ormai viaggia verso il miliardo e mezzo di persone .

I paesi ricchi predicano il liberismo per i paesi poveri senza per altro mai applicarlo veramente in casa propria. Lo si è visto con le varie richieste di dazi per le merci cinesi. Lo stesso esperimento del laissez faire che venne interrotto in Inghilterra nell’800 fu poi abbandonato:
"La merce non deve decidere dove sarà messa in vendita, come sarà usata, a quale prezzo sarà venduta, e in che maniera sarà consumata o distrutta", sosteneva Karl Polanyi nella sua ricerca sull'esperimento di "laissez faire" che ebbe luogo nell'Inghilterra dell'800; fu la stessa borghesia industriale a porvi termine appena realizzò che i suoi interessi sarebbero stati danneggiati dal libero mercato e che questo "non può sopravvivere a lungo senza annientare l'essenza umana e naturale della società, distruggere fisicamente l'uomo e ridurre il suo ambiente ad un deserto" (Chomsky 1993).
Fino a qualche anno fa la Cina era uno strano paese “liberista” senza riconoscimento legale della proprietà privata. Il diritto di proprietà sui mezzi di produzione è stato una conseguenza logica della formazione di una economia mista che accanto al settore statale in funzione dirigente vede i settori collettivo, privato nazionale e straniero spesso associato ad una controparte cinese: “La cosa sorprendente è che è che il settore privato, stimolato nel suo sviluppo dal governo, non disponesse fino a poco tempo di una copertura legale (Análisis: 2003)L’avvicinamento al riconoscimento giuridico è stato progressivo. Nel 1988 si convenne che lo stato permettesse l’esistenza e la crescita dell’economia privata come “complemento” dell’economia pubblica. Nel 1993 viene coniato il termine “economia socialista di mercato”. Nel 1999 il settore privato si converte in una parte essenziale dell’economia socialista di mercato. Nel 2003 ci si propone di animare, appoggiare e orientare l’economia privata e dunque “la proprietà privata legittima non può essere violata” (Análisis 2003).
Queste misure hanno portato con se elementi positivi contro l’arbitrarietà degli espropri da parte dei dei governi locali. Egido cita Liu Weiping, un avvocato di Shanghai, secondo cui la garanzia costituzionale sulla proprietà impedirà ai governi locali di demolire arbitrariamente le residenze private. Si va dunque verso la costruzione di un pieno stato socialista di diritto (Egido 2004).

Peter Nolan dell'Università di Cambridge nel libro Transforming China dice che la Cina ha conservato la proprietà statale o di township nell’economia e nella maggior parte delle banche, nell’industria pesante, estrattiva e nel settore delle esportazioni e la maggior parte degli investimenti stranieri sono diretti a joint-ventures con lo stato, la terra è statale e il Partito Comunista rimane al potere. Inoltre Nolan fa rilevare le catastrofi a cui sono andati incontro molti paesi dell’ex URSS con l’abbandono del socialismo. Nolan arguisce che la Cina si è situata nel mezzo di due estremi il socialismo staliniano (ovvero pianificazione pressoché totale) e fondamentalismo liberista: “Né lo stalinismo né il capitalismo di libero mercato possono essere filosofie politico-economiche durature perché ambedue saranno, o già lo sono, viste dalle masse della popolazione in differenti paesi come inadeguate nel fornire loro una migliore qualità della vita. Un qualche forma di socialismo di mercato è la solo via perseguibile a lungo termine per soddisfare le maggiori aspirazione del popolo (Peter Nolan citato da (Market 2006). In conclusione possiamo essere d’accordo con Victor Lippit che prospetta la costruzione di un modello alternativo al liberismo: la Cina è il primo esempio di una strategia, avversa al neoliberalismo, di successo, che è basata su un significativo livello di proprietà statale e una generale direzione dello stato sull’economia. (Tucker 2007)


[1] L'India ha un forte settore statale e ha sempre avuto fin dall'indipendenza piani quinquennali simili a quelli attuali in Cina.
[2] Lo stesso Milton Friedman sostiene paradossalmente la stessa tesi di Stalin e Deng: il mercato non stabilisce se una società è socialista o capitalista. “Usare o non usare il mercato non è la cruciale distinzione. Ogni società, sia comunista, socialista, socialdemocratica o capitalista, usa il mercato... piuttosto la distinzione è tra proprietà privata e non proprietà privata. Chi sono i partecipanti nel mercato e in nome di chi essi operano. Sono i partecipanti i burocrati del governo che stanno operando in nome di qualcosa chiamato stato? O sono individui che operano direttamente o indirettamente in nome di se stessi? Per questo in un altro scritto pubblicato in Cina, io propugnavo il più largo uso non del mercato ma del “libero mercato privato”… Le parole “libero” e “privato” sono ancora più importanti della parola “mercato”. Il pieno uso del mercato che si esteso nel mondo è meglio chiamato “privatizzazione” trasferendo le imprese di proprietà del governo in mani private e di conseguenza dando grande portata alla invisibile mano di cui scriveva Adam Smith.” (Lessons 1996)
[3]. Fu proprio Zhao, leader del gruppo perdente dallo scontro di Tienanmen che, nel settembre del 1988 "ricevette con grandi onori a Pechino, intrat­tenendosi a lunghissimo colloquio con lui, Milton Friedman, premio Nobel per l'economia e ascoltato consigliere della Casa Bianca. Considerato il portabandiera della più estrema scuola liberista, secondo la quale minori sono i controlli statali sull'economia, più si lascia la briglia sciolta alla concorrenza e all'iniziativa privata e meglio vanno le cose, Friedman consi­gliò ovviamente il segretario generale di insistere con le riforme più audaci, in attesa che la ricchezza generata dal boom economico annullasse i fenomeni negativi, come l'infla­zione e la stagnazione della produzione agricola" . Li Peng (leader del gruppo vincente), dal canto suo, promuoveva riunioni su riunioni tra i responsabili governativi dell'economia, che avevano messo a punto un piano di severe misure per la restrizione del credito, per drastici tagli agli investimenti e per un ritorno sotto le autorità centrali delle attività economiche che erano state delegate agli organismi periferici dello stato. Fu Li Peng a vincere il confronto e, durante il comitato centrale svoltosi a novembre, Zhao dovette pronunciare una sorta di autocritica, promettendo che non si sarebbe opposto ai duri provvedimenti di austerità approntati dal governo (Pecora 1989, p. 171). Friedman era anche molto influnete tra gli studenti "ricoluzionari":  Gli intellettuali politicamente attivi non si sono più riferiti al marxismo. Al contrario, il liberalismo occidentale classico e il neoliberismo economico, rappresentati da Friedrich Hayek e Milton Friedman, sono diventati la nuova ideologia di moda (Li Minqi 2008).cfr:  2.1.1: Gli antecedenti e la situazione sociale
[4] Il Wall Street Journal invece, ancora a metà degli anni '90, affermava “In Cina il Partito Comunista, tuttavia, non ha trovato il modo di ritirarsi dalla pianificazione centrale... Privatizzazione è la soluzione più ovvia, probabilmente (per le aziende) sarebbe equivalso nella maggior parte dei casi al fallimento, anche se alcune imprese avrebbero un valore di liquidazione corposo a causa delle loro proprietà terriere. Eppure, il governo ha deciso, nel complesso, che la proprietà pubblica non deve essere toccata. Fintanto che viene mantenuto l'impegno attuale, le riforme della Cina restano bloccate... il settore statale perseguita ancora l'economia, e fino a che un palo è conficcato nel suo cuore, abbiamo il timore che qualcosa di brutto ci attenda (Lessons 1996)“.
[5] La cosa paradossale della shock therapy in Russia è stato il collassamento del mercato sotto la guida delle terapie neo-liberali. Dopo il 1992 sono stati smantellati i meccanismi che proteggevano l'economia russa dalla forze dominati dell'economia internazionale. Le riforme del gennaio del 1992 - liberalizzazione dei prezzi, privatizzazione e subordinamento dell'economia alle forze del capitale internazionale - non hanno reso possibile la soluzione del problema dello sviluppo del settore dei consumi. Con la piena liberalizzazione dei prezzi, la domanda di beni di consumo è crollata nella misura in cui il tenore di vita è sceso, mentre i prezzi dei fattori produttivi industriali, prodotti da grandi unità monopolistiche, è aumentato molto più rapidamente dei prezzi dei beni di consumo. Interi settori della produzione per il consumo sono stati semplicemente eliminati dalle importazioni provenienti da economie più produttive. E' per questo che il crollo maggiore nella ex Unione Sovietica si è verificato nei settori dell'industria leggera e agricola schiacciati tra il l'incudine del rapido aumento dei prezzi industriali e della la concorrenza straniera e il martello del crollo della domanda dei consumatori (Lessons 1996). Questo la dice lunga sulla competenza di chi fa paragoni così azzardati con la Cina. In ogni caso il paradosso è che i russi attratti dalle luci rutilanti del consumismo occidentale non furono in grado, nella maggior parte, di non potere accedere a quei consumi tanto agognati.
[6] Nel 2001 le imprese totalmente o parzialmente di proprietà dello Stato (partecipate) fornivano il 57 percento del valore lordo della produzione industriale cinese (Annuario statistico della Cina 2002).
[7] Nella provincia del Guangdong, centro delle attività private le aziende private ricevevano solo lo 0,2% dei crediti concessi ad aziende all’inizio degli anni 90 (Huchet 1999).
[8] Sulle imprese private dice Huchet:Si tratta di imprese più piccole, ma non per questo insignificanti. Le unità private assorbono infatti il 60% della manodopera del Paese. Difficilmente si occupano di settori strategici, ma, essendo meno protette di quelle statali, contribuiscono certamente a migliorare la competitività sul mercato”.
[9] Secondo Huang le imprese private in Cina subiscono restrizioni al credito e alle opportunità di esportazione mentre le imprese statali sono sottoposte alla predazione delle autorità e alla imposizione di un eccesso di manodopera. 


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