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Non indignari, non admirari, sed intelligeri

Spinoza


Il blog si legge come un testo compiuto sulla Cina. Insomma un libro. Il libro dunque tratterà del "pericolo giallo". Un "giallo" in cui l'assassino non è il maggiordomo ma il liberale. Peggio il maggiordomo liberale. Più precisamente il maggiordomo liberale che è in voi. Uccidetelo!!!Alla fine il vero assassino (a fin di bene) sarete voi. Questo sarà l'unico giallo in cui l'assassino è il lettore. A meno che non abbiate un alibi...ça va sans dire.

lunedì 12 marzo 2012

2.1.16: Il giudizio del popolo (cinese) e quello dei populisti (occidentali)

2. Ancora una primavera. Tienanmen e dintorni
2.1 Il mito del massacro di Tienanmen
Se questi cosiddetti combattenti democratici avessero conquistato il potere, avrebbero iniziato a combattere tra di loro. Non appena scoppiata la guerra civile ci saranno stati fiumi di sangue. Che senso allora di parlare di diritti umani? -
Deng Xiaoping a Pierre Elliott Trudeau 1990

Il paradigma obbligatorio in Occidente ci dice che Tienanmen è l’inizio della fine per la gerontocrazia che domina la Cina. Ma forse qualcosa va storto in questa interpretazione. Come fu visto dalla Cina profonda l’episodio di Tienanmen? Cheek scrive che i dirigenti del Partito videro in questi giorni lo spettro della Rivoluzione Culturale, e che non ci si deve aspettare una revisione del giudizio dato allora. I discorsi oggi come allora vertono sulla paura del luan ossia del caos. Gente che derideva la polizia e i soldati dell’Esercito popolare di Liberazione. Per molti che la Rivoluzione Culturale l’avevano subita, che avevano visto rovesciare da analoghe dimostrazioni di studenti spesso giovanissimi un governo che loro ritenevano giusto rividero i giovanissmi che insolentivano veterani della Lunga Marcia che pagarono con l’isolamento e la deportazione la ventata di irrazionalità. Il Partito Comunista Cinese così giustifica la repressione contro il movimento studentesco: “Portammo ordine in un momento in cui i teppisti di strada stavano terrorizzando Pechino” (Cheek 2007, XXV). D'altra parte fu Mao A chiamare l'esercito contro le guardie rosse. Il 19 agosto 1967, nella città di Guilin, dopo una lunga guerra di posizione durata sei giorni 30 mila soldati, inclusi membri della milizia popolare contadina, distrussero quasi tutte le guardie rosse che combattevano contro un l'esercito per "uccidere soldati, bruciare e distruggere veicoli". Insomma come a Pechino nel 1989.
Deng Xiaoping aveva affermato nei giorni di Tienanmen:
La nostra economia è molto migliorata negli ultimi anni. Il popolo ha di che mangiare e di che vestirsi, è sotto gli occhi di tutti. Se così non fosse i contadini sareb­bero insorti dopo soli dieci giorni di protesta studentesca, figuriamoci in un mese. Invece i villaggi sono stabili in tutta la nazione, e anche gli operai sono fondamentalmente tranquilli. Questi sono i frutti della riforma e dell'apertura. Quando la riforma economica raggiunge un certo stadio, bisogna accompagnarla alla riforma politica. Tu sai che non mi sono mai opposto alla riforma politica. Ma bisogna esaminare la realtà, pensare a quanti dei compagni più anziani nel Partito pos­sono accettarla in questo momento. Non si può diventare grassi in un sol giorno. Non è così semplice. Sono vecchio, e se qualcuno dice che sono rimbambito, confuso, bene... ma rispetto ad altri della mia età all'interno del Partito, non credo. (Tienanmen papers 2001, pp. 268-69).


No, Deng non era rimbambito. La Cina era migliorata e di molto:
Anno
Reddito annuale
procapite dei residenti rurali
Reddito annuale procapite dei residenti urbani
Proporzione tra il reddito procapite dei cittadini e dei residenti in campagna (residenti rurali=1)
Cifra assoluta
(yuan)
Indice
(anno precedente
=100)
Cifra assoluta
(yuan)
Indice
(anno precedente
=100)
1978
133.6
343.4
2.57
1979
160.2
119.2
405.0
115.7
2.53
1980
191.3
116.6
477.6
109.7
2.50
1981
223.4
115.4
500.4
102.2
2.24
1982
270.1
119.9
535.3
104.9
1.98
1983
309.8
114.2
564.6
103.9
1.82
1984
355.3
113.6
652.1
112.2
1.84
1985
397.6
107.8
739.1
101.1
1.86
1986
423.8
103.2
900.9
113.9
2.13
1987
462.6
105.2
1002.1
102.2
2.17
1988
544.9
106.4
1180.2
97.6
2.17
1989
601.5
98.4
1373.9
100.1
2.28
Fonte: Il contrasto tra il reddito procapite dei residenti urbani rurali è calcolato sui dati di p.108, China Summary Statistics 2006 compilato dallo State Statistics Bureau.
Nota: Le cifre assolute sono calcolate sui prezzi del 2006 mentre gli indici non sono stati calcolati a prezzi comparabili.
Reddito annuale procapite dei residenti urbani = reddito totale – tasse pagate– contributi per la sicurezza sociale.
Reddito annuale procapite dei residenti urbani = reddito totale – tasse pagate– contributi per la sicurezza– ammortamento delle immobilizzazioni- contributi ai parenti al di fuori del villaggio.

I redditi erano aumentati e anche di parecchio. Importante vedere gli aumenti indicizzati: i contadini solo nel 1988 e i cittadini nel 1989 hanno avuto una diminuzione molto contenuta dei redditi. Non solo ma uno dei famosi must della sinistra contro la Cina e cioè che sarebbero aumentate le diseguaglianze in particolare tra città e campagna è falso. Le differenze erano minori di quelle dell'epoca maoista!!!

Ted Koppel notava il 17 Maggio del 1989 che la televisione cinese mostrava la storia dalla parte degli studenti e si chiedeva l’impatto che potesse avere sulla Cina rurale (Turmoil 1992). Nella Cina provinciale e rurale molti cinesi furono colpiti negativamente dal comportamento degli studenti: “Non era patriottico disonorare la Cina sugli schermi TV, peraltro arrivati solo da poco nei villaggi e nelle fattorie della campagna cinese. Persino nei giorni esaltanti del maggio 1989, quando i media nazionali offrivano una copertura abbastanza neutrale delle dimostrazioni, agli occhi dei cinesi delle campagne tutto ciò non apparve altro che luan, caos. Ragazzi e ragazze che danzavano e si toccavano in pubblico, insultavano la polizia e ostruivano la strada davano l’impressione di individui decadenti, amanti del caos e non patriottici, e quindi meritavano ampiamente di essere rimessi in riga” (Cheek 2007, p. XXVIII).

Kristof afferma:
Eppure la Cina è un posto grande, e in campagna c'era ancora un sacco di sostegno alla repressione militare. Se tu fossi un contadino del Sichuan che ha visto le immagini alla televisione di stato dei "rivoltosi contro-rivoluzionari" che avevano aggredito e ucciso le truppe del governo (che è stato un tema costante della propaganda di stato per il primo mese), allora saresti pure contento che il governo avesse agito con decisione per sedare i disordini. La sensazione nel viaggiare in quasi ogni provincia in seguito a Tienanmen era che i contadini e gli operai comuni che non hanno un legame particolare con una grande città non prendessero posizione. Non si fidavano della propaganda governativa, ma anche desideravano ardentemente la stabilità in modo che si potesse continuare a prosperare, e avevano ancora una fede ragionevole del Partito Comunista a livello centrale. I contadini erano ancora molto disposti ad arruolarsi nell'esercito, per esempio, mentre a Pechino e Shanghai l'esercito era profondamente screditato per aver sparato sugli studenti (Kristof 2009).
I contadini erano allora il 75% della popolazione. Alcuni critici hanno messo avanti diverse spiegazioni per la mancata partecipazione dei contadini nel tumulto, che meritano qualche esame. In generale, i leader del movimento degli studenti si sono soffermati sull'idea che i contadini fossero troppo "ignoranti per capire la democrazia." Evidente in questa visione l'elitarismo, che abbiamo visto essere caratteristica peculiare del movimento studentesco, che ignora la lunga storia di mobilitazioni politiche in campagna. Il punto di vista più comune in Occidente è che la leadership cinese sia stata in qualche modo in grado di mantenere la popolazione rurale al buio sugli eventi in città. Si ignora, tuttavia, che la campagna cinese non era più quella di una volta. La maggior parte delle persone sono ormai dotate di radio, molti hanno accesso a TV e i giornali sono regolarmente consegnati. Poiché gran parte dei media sosteneva la linea di Zhao, i cinesi delle campagne sentirono cose positive circa le dimostrazioni. Inoltre, Voice of America raggiunge la campagna, come le città, in modo che tutti in Cina hanno tratto beneficio dei suoi "oggettivi" reportage sugli eventi (Kelly 1992). 

Evitare il caos (luan) fu la linea direttrice del PCC ci informa Check secondo cui questo è il termine usato più spesso per definire la Rivoluzione Culturale (Cheek 2007, 57). La tenuta del regime cinese, infatti, fu possibile grazie al successo alla liberalizzazione del commercio agricolo dopo il 1979 che permise un netto miglioramento della vita dei contadini rafforzando politicamente il PCC[1]. Il problema del caos è avvertito anche da Cammelli viaggio in Cina in quello stesso periodo, il senso di paura per gli avvenimenti di Pechino e i timori di una disgregazione della nazione assieme ad “una sorta di irresponsabile e splendida ventata di anarchia che poteva assomigliare alla democrazia quanto un intervallo scolastico tra una lezione e l’altra può assomigliare all’antifascismo (Cammelli 2008) ”.

In realtà Tienanmen a dar retta a molti dei protagonisti aveva assai poco di democratico: la scena era tenuta attraverso colpi di mano e a sentire alcuni studiosi la maggioranza dei cinesi disapprovava, anzi considerava coloro che erano scesi in piazza una sorta di golpisti che si opponevano alla volontà popolare.
"Lo sviluppo urbano, gli investimenti e il PIL sono cresciuti per tutti gli anni ’90. L'energia della protesta che brevemente ha elettrizzato piazza Tienanmen si è dissipata fuori dalle città senza diffondersi attraverso la campagna. All'inizio del 1989 nell’euforia delle manifestazioni, più di 80.000 studenti hanno sfilato per le strade di Pechino chiedendo un governo più reattivo. Entro il 2005, ci sono stati più di 80.000 agitazioni di massa segnalati in tutto il paese - ma questo non è avvenuto nelle città costiere in piena espansione, né certamente presso le università d'élite. Il partito è emerso dalla crisi unificato attorno alla visione di Deng Xiaoping di una "economia di mercato socialista", ed ha riacquistato la legittimità con la popolazione urbana attraverso l'implementazione di questa visione. L'unità del partito restaurata sulla piattaforma della crescita orientata al mercato, poteva essere realizzata senza l'intercessione della “Dea della Democrazia" degli studenti occidentalizzanti, ma portando un beneficio tangibile per i residenti della città" (Delury 2009).

Secondo un’opinione diffusa chi andava in piazza preceduti dalla Statua della Libertà, erano dei campioni della sinistra. Negli articoli sull’Unità del periodo, nelle corrispondenze di Lina Tamburino, si riferiva di studenti che andavano incontro alla morte cantando l’Internazionale. Questa storia dei manifestanti di sinistra è stata poi sostenuta da Livio Maitain e di altri trotzkisti che hanno la tendenza a vedere in ogni movimento, più o meno di massa, la ribellione contro la mitica “burocrazia”[2]. Così di volta in volta hanno visto il ruolo rivoluzionario dei rivoltosi ungheresi, o quello di Gorbaciov che ha dichiarato non solo di avere deliberatamente fatto cadere l'URSS ma di rammaricarsi che non sia caduta anche la Cina, oppure le virtù rivoluzionarie dell'alcolista Eltsin. Non sembra però che i "rivoluzionari" di Piazza Tienanmen volessero qualcosa di diverso dall’american Way of Life. Il già citato Wuer Kaixi, intervistato in The Gate of Heavenly Peace dice che il movimento studentesco voleva il diritto di avere le Nike e tempo libero per portare la propria ragazza al bar. Obiettivi piuttosto minimalisti rispetto a quelli che gli vengono attribuiti. Un altro dei leader degli studenti, Wang Dang, in un’intervista del 4 giugno 1993 al Washington Post dichiarò che “la ricerca della ricchezza è parte integrante della spinta verso la democrazia” (Natura Capitalistica 2009) e che “il movimento non è pronto per la partecipazione dei lavoratori perché la democrazia deve essere fatta propria prima da studenti e intellettuali e poi estesa agli altri (McInerney 1996)”. D’altra parte quasi tutti i leader studenteschi, tra gli altri Chai Ling, Li Lu, Wang Dan, Shen Tong, Wuer Kaixi si sono trasformati in “venture capitalist” e investitori speculativi. Tra l’altro nelle interviste fatte poco dopo dall’Unità da New York da Siengmund Ginzburg gli esuli dimostravano una forte simpatia per Eltsin.

Cammelli mette il dito sulla piaga di tutte le interpretazioni di sinistra in particolare quelle di Viola e Jacoviello su Repubblica, al tempo dei fatti, che segnano la fine della rappresentatività del Partito Comunista Cinese: “La sinistra fece di più. Rivendicò di essere l’unica ad avere le carte in regola per denunciare i macellai di Pechino, giacché da una parte non era compromessa a livello governativo quindi non doveva mostrare cautela diplomatica e dall’altra non aveva colà interessi economici come i pescecani sfruttatori di quelle che diverranno le multinazionali (Cammelli 2008) ”.

Secondo Sandro Viola di Repubblica la Cina non era è la stessa del pre-Tienanmen, la Cina era alla vigilia della guerra civile. Un concetto che avrà molto successo in seguito. Così scrive Rina Gagliardi su “Liberazione”:
E, infatti, dopo Tienanmen, il nuovo Moloch della Cina si chiama Mercato: crescita produttiva, iniziativa privata, apertura alle multinazionali, ritmi frenetici di sfruttamento del lavoro vivo. Con il portato "naturale" dello sviluppo - come l'espansione smisurata delle diseguaglianze economiche, la disoccupazione, l'insicurezza sociale. Ma senza quell'essenziale "correttivo" che il movimento operaio, e le sue lotte, hanno saputo esercitare nei confronti del capitalismo: in Cina, a tutt'oggi, non c'è libertà di organizzazione sindacale, e ogni tentativo è anzi duramente stroncato, trattato sotto la voce "atti eversivi contro la sicurezza dello Stato"[3], che riempie ogni anno le prigioni cinesi di migliaia di rei non sappiamo quanto confessi. Non ci sono partiti, certo. Non ci sono giornali indipendenti. Non c'è alcuna libertà di culto religioso. Non ci sono associazioni, o aggregazioni libere, che configurino la crescita di una "società civile" degna di questo nome. C'è, sì, un miracolo economico che il resto del mondo invidia - e\o teme. Il miracolo che coniuga la spietatezza e l'illibertà della politica con la spietatezza e l'efficacia dell'economia - del capitalismo (Gagliardi 2005).
L’articolo della Gagliardi è un esempio del riemergere, questa volta a sinistra, del vecchio paradigma totalitario dei Cold Warriors. Allora Jacoviello sull’Unità enuncia chiaramente l’alternativa, ormai l’aggressione non era più possibile perché: “Se un governo straniero si fosse mosso per fermare la repressione, avrebbe riesumato lo spettro coloniale e intollerabile dell’intervento negli affari interni cinesi e di un colonialismo non più territoriale ma certo politico”. Citato in (Cammelli 2008).

Ma come vede la Cina una certa sinistra? Lo storico americano Hofstadter parlò della tendenza della società americana a vedere la storia come cospirazione. Domenico Losurdo così riassume questa tendenza: “Dato che il popolo è l’incarnazione naturale e immediata dei più alti valori umani, il regno della giustizia e della felicità è a portata di mano: basta solo neutralizzare i potenti e i traditori” (Losurdo 2002b). Questa concezione della storia agisce anche nel sessantottismo con autori come Renzo Del Carria che con Proletari senza rivoluzione ci raccontava delle masse sedotte e abbandonate dai loro leader traditori (tutti). Del Carria meritava di fare la fine che ha fatto candidato trombato del berlusconismo per il parlamento italiano. Losurdo sottolinea che “i populisti, i quali si cullano in una confortevole certezza: il popolo, le masse sanno istintivamente qual è il regno della libertà e della giustizia e vi aspirano con tutte le loro forze; se esso non si realizza, è chiaro che è intervenuto un tradimento " (Losurdo 2002b).

La storia del popolo continuamente deflorato dai burocrati dopo essere stato indotto a calare le mutandine è un must del trotskismo che va alla ricerca di qualsiasi movimento di massa subito ribattezzato come rivoluzionario. Ovviante i sostenitori delle Rivoluzioni Colorate con costoro vanno a nozze. Basta dire che Eltsin il cui nome è frequentemente accoppiato a quello di Quisling per di più senza dignità è diventato nientemeno che l’eroe di una rivoluzione antiburocratica (in particolare per i trotskisti). Losurdo rileva che se gli studenti che portavano in trionfo la Statua della libertà avessero vinto, proprio in concomitanza con il crollo del socialismo nell’est Europa ci vuole poco ad immaginare ciò che sarebbe successo: il successo di un Eltsin cinese. Tutto si fonda sulla “credenza mitologica nel valore comunque salvifico del ‘popolo’ e delle ‘masse’ ” (Losurdo 2002b).

Naturalmente il populismo si basa sulla santificazione delle masse. Fu lo stesso Komintern che definì il fascismo “movimento reazionario di massa” e, come ricorda Losurdo i proprietari di schiavi del sud degli USA indubbiamente erano ben rappresentativi a livello di massa. Senza contare che ogni movimento razzista e separatista o fortemente autonomista si è presentato dietro al vessillo apparentemente liberatorio della lotta all’invadenza dello stato e a favore della “libertà”. I guai di questo populismo hanno portato ad appoggiare Eltsin fino ad arrivare a manifestare assieme a movimenti assai dubbi dal punto di vista di classe in una sorta di Fronte Popolare rovesciato. I membri della tendenza trotzkista di Kakehashi in Giappone organizzarono una marcia contro la visita del Presidente cinese Jiang Zemin assieme al Partito Democratico Cinese (non certo fautore del socialismo) e forze pro Dalai Lama molto ben vista dagli sciovinisti anticinesi del Giappone (Why China 2005).

L’atteggiamento dei trotskisti anche da noi è su questa falsariga. Il giornale dei trotskisti italiani commenta l’appello dell’Associazione per la democrazia in Cina ai tempi dei fatti di Tienanmen in cui auspica la creazione di un nuovo partito da contrapporre al Partito Comunista: ”Il partito, cioè, che usurpa quel nome, al quale bisogna contrapporre un 'vero' partito comunista”. Sarcastico il commento di un altro gruppo di estrema sinistra; “La ‘classe’ intellettuale del ‘popolo’ cinese che, perlomeno, apertamente si dichiara per la costituzione di un partito 'anticomunista', è promossa nei ranghi del ‘trotzkismo’ (Vieni avanti 1989)”.
Cosa che succede anche ai “maoisti” americani del Workers Advocate che sottolineano la presenza tra i manifestanti della comunità cinese in America di un sostanzioso gruppo di sostenitori del Kuomintang con l’appoggio di politici e businessmen americani. In Cina, tuttavia, le cose andranno diversamente sebbene fossero piuttosto chiari i collegamenti esterni e interni con forze non propriamente marxiste. Del resto nessun leader studentesco si è proclamato marxista ma “Il movimento marxista, si giura, verrà, come "combinazione di operai, studenti radicali e contadini poveri", cioè da un rinnovato "blocco" rivoluzionario. maoisteggiante” (Vieni avanti 1989). Curiosamente Michael Hardt, profeta assieme a Tony Negri delle moltitudini, considera Tienanmen una potente lotta contro il neoliberalismo nonostante sia smentito da tutti (ma proprio tutti i protagonisti).(Hardt 2012). E' in buona compagnia di tutti i semplificatori dalla Klein alla Masi fino alla Pascucci.

Ovviamente l’accusa per i comunisti cinesi è quella infamante di “fascisti”: “E Deng?  ‘Questa volta non si tratta di reazione, ma di controrivoluzione armata totale, con elementi fascisti...’. ‘Stato operaio degenerato’ che si trasmuta in ‘fascismo’ […] Ma se il ‘post-capitalismo’ genera fascismo, c'è ben poco da lamentarsi poi di chi "approfitta" dei fatti per dimostrare il fallimento del comunismo. [...] la LSR accusa il PCI di avere ‘la stessa matrice stalinista di quello di Deng’, quindi, sotto sotto, fascista...(Vieni avanti 1989)”. Enrica Collotti Pischel, per altri versi valida studiosa della Cina, scrive per l'Unità del 6 giugno 1989, l'articolo «Può un regime comunista diventare fascista?». La Collotti Pischel che aveva sperato in un processo di democratizzazione analogo a quello gorbacioviano ma più profondo in un articolo pubblicato una settimana prima dei fatti Tienanmen ora bollava come fascista il regime cinese. "La sua base sociale sarebbero state le «sostanziose classi privilegiate», nate sull'economia di mercato, e potenzialmente collegate con il capitale internazionale. Non conta nulla che queste classi rappresentino tuttora una fetta percentualmente insignificante non solo della società cinese, ma anche della stes­sa produzione del reddito, che una parte degli «imprenditori rossi» avessero salutato con simpatia o pensato di utilizzare il movimento degli studenti e abbiano pagato duramente la loro scelta, che tutta la restaurazione sia avvenuta in nome del maoi­smo, condannando all'ergastolo l'autore del gesto dissacratore (che fece inorridire e preoccupò gli stessi studenti, che conse­gnarono alle autorità il responsabile) di lanciare una bottiglia d’inchiostro sul ritratto di Mao sempre collocato in piazza Tienanmen" (Moscato 1990, in Maitan 1999,  pp. 64-65) rileva il trotskista Antonio Moscato.
Disarmante come i populisti abbiano diviso le classi pro o contro il movimento studentesco.
"Da un lato operai, studenti, strati popolari; dall'altro i quadri direttivi dell'apparato di stato e dei monopoli "pubblici", i proprietari e i dirigenti delle imprese private, le gerarchie degli organi repressivi e delle istituzioni culturali" ("Officina", giugno '89). Ora, senza prendersi la briga di andare in Cina a fare "interviste", è possibile rendersi perfettamente conto che dalla parte del "movimento studentesco" (o, se si vuole, dalla parte della punta politica organizzata e trainante di esso) c'erano proprio i manager di stato e, tanto più, i big e aspiranti big del settore privato, cioè i rappresentanti del capitale interno ed internazionale. I due milioni di dollari di Hong Kong sequestrati […] sono solo la punta d'iceberg del generoso sostegno provveduto tramite collette, statene ben certi, non tra gli operai di questo centro infernale, ma tra i boss capitalistici interessati a spostare a proprio favore i rapporti di forza in vista dell'integrazione futura con la Cina di Deng, che pur promette "una patria, due sistemi". E Taiwan? E gli USA (gialli d'importazione e bianchi doc)? Notizie di sottoscrizioni per Deng, "ovvero la più grande, matura e compiuta (!!!) espressione del capitalismo cinese", davvero non ce ne sono. D'altronde, basta dare una scorsa alla pubblicistica di questi paesi, a cominciare dal "Wall Street (nota bene!) Journal" di Hong Kong, per rendersene conto. Si trattava, e si tratta, di un investimento in piena regola, e se si è investito sui "democratici" di Piazza Tien An Men una qualche ragione - che sfugge agli "intelligenti" - deve pur esserci (Vieni avanti 1989).
Gli studenti dell’università cinese di Hong Kong avevano assistito gli studenti con coperte, sacchi a pelo, equipaggio per telecomunicazioni e milioni di dollari di Hong Kong. I giornalisti coprivano l’evento seguendo i soldi. Gli studenti avevano sistemi di altoparlanti, walkie talkie, telefoni cordless, lileografi e tende colorate non provenienti della RPC (Turmoil 1992).


Un corrispondente russo avverte il cambiamento avvenuto tra gli stessi protagonisti delle proteste: 
Coloro che hanno parlato con pechinesi in quei giorni, si ricordano che la loro risposta principale era: "Deng Xiaoping ha ucciso i nostri figli, noi non lo si potrà mai perdonare". Tuttavia, un anno dopo, quando ho parlato personalmente con alcuni partecipanti agli eventi (studenti e insegnanti) la loro valutazione si è invertita, e molti hanno ammesso che si trattava di una misura necessaria necessaria per salvare lo stato. Molte cose hanno contribuito al cambiamento di valutazione come ad esempio gli eventi in URSS e nell'Europa dell'Est. Il governo non si stanca di ricordare quegli eventi, che noi conosciamo bene, ai cittadini nella Cina contemporanea (i libri sulla crollo dell'Unione Sovietica e del campo socialista, nella più grande libreria per le strade di Pechino a Xidan, occupano più ripiani) (Виноградов 2014).

Aberto Jacoviello, che su Repubblica aveva definito "macellai fascisti" i governanti cinesi, tornato poi nell’Ottobre dell’89 a Pechino e intervista studenti e dirigenti delle Università Xinghua e Beida, le due più importanti e più celebri Università della Cina, che con venticinquemila studenti sono state lo zoccolo duro della protesta, l'anima delle settimane di Tienanmen. Pechino non sembra propriamente una città in stato di guerra civile. I militari sono assenti sia dai campus universitari che dalle strade. La legge marziale non si avverte tanto meno nelle Università. Jacoviello intervista un paio di attivisti del movimento: “Ho potuto parlare, assai liberamente, oltre che con il direttore del Dipartimento amministrativo, con un paio di giovani studenti, una ragazza e un ragazzo […] Né a Xinghua né a Beida m'è parso di cogliere reticenze nelle risposte alle mie domande [...] a Xinghua, dove alla maggior parte delle mie domande hanno risposto i due giovani studenti: 22 anni ciascuno”.

Un discorso a parte merita un intellettuale come Wang Hui. Questi è considerato un campione della “nuova sinistra” in Occidente sebbene egli rifiuti quest’ appellativo e preferisca riferirsi a se stesso come “intellettuale critico”. In effetti la sua utilizzazione da parte delle vedove inconsolabili della Rivoluzione Culturale in Occidente è quantomeno impropria. Wang non è affatto un ammiratore del maoismo. Per Wang “lo stato maoista manteneva, attraverso la coercizione e la pianificazione, una disuguaglianza sistematica mascherata da uguaglianza” (dopodiché è difficile stabilire cosa sia l’eguaglianza) e semplicemente vuole la democrazia assieme all’eguaglianza e la giustizia (ma chi non la vuole) “in un contesto di rapido sviluppo del mercato”. Dunque Wang non si oppone nemmeno al mercato. Wang riconosce che le riforme denghiste “hanno acquisito legittimità per i loro effetti certamente liberatori e per il dibattito intellettuale che si è sviluppato. Lo stato non deve la sua stabilità soltanto alla coercizione ma anche al fatto di aver saputo mantenere questa dinamica. L'importanza del successo appare chiara quando si paragonano questi risultati con quelli della «privatizzazione spontanea» in Russia (Wang Hui 2002).



Wang Hui
Per il movimento degli studenti il “bersaglio principale era lo stato socialista,” e “tra le varie componenti, esso contava gruppi d'interesse privati che erano stati in passato i grandi vincitori del decentramento del potere e delle ricchezze. Questi avevano rivendicazioni proprie e chiedevano al governo l'attuazione di un programma di radicale privatizzazione. Hanno strumentalizzato il movimento per modificare i rapporti di forza all'interno del governo nella direzione a loro favorevole (certi gruppi economici come la Kanghua Company e la Sitong Company hanno esercitato forti pressioni). Un fenomeno identico si è verificato tra gli intellettuali strettamente legati al potere statale. Un nuovo genere di tirannia. Agli occhi del resto del mondo, i neoliberali si sono posti come contestatori del regime in lotta contro la «tirannia» e per la «libertà»” (Wang Hui 2002). Tra i supporter del movimento anche i ricercatori del Beijing Social and Economic Sciences Research Institute (SERI) un think tank fondato nel  1987 da membri di varie università che pubblicano la rivista Economics Weekly e che sosteneva una visone neo-liberista.

Il movimento studentesco aveva indubbiamente sostegni da parte di persone interessate. Certamente una parte del Partito ma soprattutto, come sottolinea la rivista Che fare?, sia i capitalisti cinesi che quelli di Taiwan ed Hong Kong e gli stessi americani interessati allo sviluppo degli affari in Cina: “E siccome soldi e politica vanno assieme, non fa stupore la penetrazione nel movimento delle "idee" del Guo Mindang o di altre "democratiche" formazioni occidentaliste che vedono come il fumo negli occhi, il permanere del monopolio del PCC” (Cammino continuo 1989)[4].

Wang Hui parla del “maoismo”, che come abbiamo visto non ama, come di un’ideologia irrecuperabile. Poi parla di neoliberalismo trionfante in Cina nel dopo Tienanmen cosa che, come vedremo, è negata da chiunque abbia visto realmente all’opera questa ideologia in Occidente (Stiglitz, Galbraight ecc.). “Alla vecchia ideologia, irrecuperabile, si è sostituita la strategia detta «forti su due fronti» (ideologico e economico) [liangshou ying] che, intrecciata alle riforme economiche, è diventata un nuovo genere di tirannia”. E’ abbastanza singolare che Wang associ la parola d’ordine del “forti su due fronti” ossia quello ideologico marxista e quello dello sviluppo economico nientemeno che con il neoliberalismo, infatti, scrive: “Il «neoliberalismo» ha sostituito l'ideologia di stato come ideologia dominante, orientando e assicurando coerenza alle scelte del governo, alla sua politica estera e ai nuovi valori mediatici” (Wang Hui 2002). L’impressione è che Wang, che è un esperto di letteratura non sia altrettanto esperto di economia (come del resto la maggior parte dei suoi seguaci in Occidente). Wang è un socialdemocratico che crede al valore taumaturgico della “democrazia” che porta di per se l’eguaglianza e che di per se stessa risolve i problemi. Un’idea sempre più in crisi nello stesso Occidente. Loretta Napoleoni obbietta che forse il concetto di democrazia dei dissidenti cinesi è assai vago e che questi ignorino come la democrazia occidentale non sia del tutto immacolata e copra frequenti abusi: le balle raccontate da Bush, leggi ad personam di Berlusconi, denaro pubblico facile per i parlamentari britannici: “Vent’anni dopo Tienanmen e nel pieno della peggiore recessione dai tempi della grande depressione, il fascino discreto della democrazia ha comunque poca presa in Cina, un paese dove l’economia funziona, il livello di vita da quel lontano 1989 è aumentato vertiginosamente e la crisi economica è meno grave rispetto al resto del mondo” (Napoleoni 2009).

D’altra parte viste le forze che soffiavano sul fuoco di Piazza Tienanmen non si vede per quale ragione la Cina non avrebbe dovuto fare la fine della Russia. Wang contrariamente ai suoi sostenitori in Occidente non ama per nulla la Rivoluzione Culturale e pone l’accento sugli aspetti positivi delle riforme di Deng che hanno avuto il merito di emancipare la Cina “dai suoi legami e dai vicoli ciechi della rivoluzione culturale. Hanno avviato un vero e importante sviluppo economico. Hanno avuto effetti liberatori. Ciò spiega perché siano state salutate positivamente dagli intellettuali cinesi”. Secondo Wang Hui, l'origine delle riforme è dovuta alla reazione - largamente condivisa dentro e fuori il Partito comunista cinese - contro "le lotte intestine e il carattere caotico assunto dalla politica negli ultimi anni della Rivoluzione culturale". Pur ripudiando fermamente la Rivoluzione culturale, il Partito comunista tuttavia "non ripudiò né la Rivoluzione cinese, né i valori socialisti né il pensiero di Mao Zedong nel suo complesso” (Arrighi 2008, 404).

Si deve dire che la stampa occidentale è piena di articoli in cui i cinesi sono considerati biechi imitatori del consumismo americano come di altri che parlano di feroce odio antioccidentale e antiamericano. Un esempio di quest’ultimo atteggiamento è stato l’assalto all’Ambasciata americana dopo il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado. Si potrebbero anche citare le manifestazioni a favore  delle Olimpiadi da parte delle comunità cinesi in Occidente.
Dopo che ci si rese conto che gli studenti forse non erano tanto affidabili come avanguardia del proletariato il ruolo passò ai “sindacati liberi” sul tipo polacco.
C’è stata la rivolta guidata dai sindacati liberi…Un amico cinese mi diceva che quelli di Tien an men erano principalmente figli di quadri, si trattava cioè di una faccenda quasi interna al partito. Però hanno innescato una rivolta generale del popolo. Questo non è nuovo in Cina. Gli studenti sono stati quelli che hanno innescato anche la rivoluzione culturale. Non collegherei neppure alla rivoluzione culturale degli anni 1966-1969 questa rivolta, che è stata essenzialmente una rivendicazione di libertà. Il concetto di libertà è ampio e anche piuttosto indefinito: così poterono confluire nel movimento correnti diverse. Fu possibile la convivenza della statua della libertà col canto dell'Internazionale (Masi 2004).
Tommaso Di Francesco intervistando Edoarda Masi fa una domanda rivelatrice “Perché in Cina tutti prendono le distanze dai fatti della Tienanmen dell'89, non solo il PCC, ma tutti, dagli intellettuali che convivono con il Partito a quelli che dissentono, fino ai settori popolari?“ (Masi e Di Francesco 1999). La risposta è più sotto nell'articolo di Pieranni nello stesso dossier del Manifesto: "E per tutti, anche quelli che criticano l'intervento di allora dell'esercito, la risposta a 20 anni di distanza è pratica e cinica: «Se non avessero fermato gli studenti, rischiavamo di ritrovarci come l'Unione sovietica, un caos totale»" (Pieranni 2009).

Scrive Sisci: "Oggi più di allora i leader pensano con orrore al sangue versato: mai si sarebbe dovuto arrivare a sparare sulla gente. D’altro canto i leader cinesi hanno digerito una lezione profonda, che sta portando un ordine crescente nella politica nazionale: mai la lotta politica interna del partito deve superare un livello di guardia, altrimenti tutti sono sconfitti e non ci sono vincitori" (Sisci 2009). Zhao era però un rivoluzionario vero, che si era unito a Mao da ragazzo per realizzare il comunismo in Cina, che negli anni ’50 aveva sognato con il grande Balzo in avanti, poi fallito, e negli anni ’70 e ’80 aveva aperto per primo la strada delle riforme economiche distribuendo la terra ai contadini ma anche facendosi consigliare dagli economisti ultra liberisti reaganiani (Sisci 2009).

"Vent’anni dopo - ammette Zhang - non c’è all’orizzonte una forza alternativa al partito comunista, non esiste un movimento che possa guidare la transizione pacifica verso la democrazia. E’ dentro il partito comunista che deve nascere questa spinta per il cambiamento" (Turmoil 1992). Egli fa notare che l’economia era in un continuo boom. Le pance piene non si accordano con le rivoluzioni e gli studenti si erano andati a cacciare stupidamente in un angolo non lasciando altra soluzione che ristabilire l’ordine. La crisi contemporanea delle economie dell’est suggeriva che l’uscita dall’economia socialista aveva prodotto la crisi (Turmoil 1992).



[1] Le riforme del 1978 nelle campagne e le loro conseguenze benefiche furono responsabili del mantenimento dello status quo del PCC durante i fatti del giugno del 1989, se i contadini fossero stati scontenti, il regime sarebbe fatalmente caduto come caddero tante dinastie cinesi nel corso del tempo afferma Elias Jabbour (Jabbour 2008). D’altra parte allora il partito era composta per l’80% da quadri di origine contadina. "Se la percentuale degli abitanti delle zone rurali è rapidamente diminuita dall'80 al 75% negli ultimi anni (e questo fenomeno potrebbe segnare una catastrofe del tipo di quelle che contrassegnano la vita dei paesi del Terzo mondo), se una parte della popolazione dei villaggi oggi non è più direttamente addetta all'agricoltura, ma avvia una parte dei suoi giovani al lavoro in piccole o medie imprese nelle quali investe gran parte del capitale accumulato (ed anche questo è fenomeno non privo di conseguenze sociali problematiche), la Cina resta la più grande società rurale del mondo e nessuno può pensare che sopravviverebbe" non tenendone conto. Orbene, il PCC è percepito "da molti intellettuali e anche da molti studenti" come "un partito di contadini". Che vuol dire? Che il "vincolo agrario" è da essi considerato unicamente come un intralcio all'ulteriore, "libero" sviluppo di un (democraticissimo, ohibò!) capitalismo, che si imputa al PCC di infrenare. Ovvio che le masse contadine povere non avvertano il richiamo della "gloriosa" lotta degli studenti ed assimilati, e viceversa”(Cammino continuo 1989).
[2] “Ma chi si ricorda oggi che quei fragili e resistentissimi studenti andarono incontro ai carri cantando l'Internazionale?”,  Chiede retoricamente Rina Gagliardi assecondando la versione di sinistra dell’avvenimento (Gagliardi 2005). In realtà coloro che poi scrissero “La Cina può dire No” di cui parleremo, che a Tienanmen c’erano, raccontano tutt’altra storia. Quella del sogno infranto sull’Occidente.
[3] In generale la sinistra radicale e i sostenitori del “maoismo” mettono l’accento sulla mancanza di libertà sindacale. Ma questo aspetto della Cina non risale a Deng. Dove abbiano visto la libertà sindacale durante la Rivoluzione Culturale, rimane un mistero glorioso. Semmai Deng e gli attuali dirigenti sono stati molto più tolleranti fino, addirittura, a esprimere simpatia con gli scioperanti.
[4] Da notare che i principali sostenitori “democratici” del movimento ossia Taiwan e Hong Kong non erano al tempo paesi democratici con elezioni libere.

Bibliografia

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